Vinka Ramakrishnan, premio Nobel per la chimica, nel suo libro “Perché moriamo. La nuova scienza dell’invecchiamento e la ricerca dell’immortalità”, esplora il perché invecchiamo e moriamo, analizzando le più recenti scoperte della biologia dell’invecchiamento e interrogandosi su cosa significa «vivere più a lungo». Ci siamo occupati del suo libro di recente, mettendo l’attenzione su alcuni punti importanti in merito all’invecchiamento: a) la definizione di morte di un organismo, che non coincide tanto con il momento in cui muoiono le sue cellule, ma quando l’organismo non funziona più come un tutto coerente; b) la definizione di invecchiamento quale accumulo di danni e degradazione nei sistemi biologici; c) nonché un aspetto etico messo in risalto dall’autore che contrasta la severa critica mossa contro l’ “industria della longevità” e alle promesse di «anti-aging».

Analizziamo ora aspetti più tecnici, che l’Autore affronta sempre con stile divulgativo, riguardanti nello specifico il perché l’essere umano invecchia. Mostrando confronti con organismi vicini e lontani a noi, Ramakrishnan spiega che le cause naturali del deperimento del nostro corpo, ovvero, i meccanismi biologici sottostanti al nostro peculiare processo di invecchiamento, non sono affatto semplici, né chiarissimi agli scienziati. Gli esperti ne hanno individuato alcuni, ma non vi è ancora una ragionevole certezza di quale o quali siano le cause fondamentali.

Guardiamo, tanto per cominciare, alla teoria darwiniana dell’evoluzione della specie, senza la quale, dice Ramakrishnan, nulla avrebbe senso in biologia. Ebbene, sembra che l’evoluzione non miri a selezionare organismi perché vivano necessariamente a lungo, ma per trasmettere i propri geni. Secondo Ramakrishnan, l’evoluzione dà priorità alla riproduzione degli organismi, piuttosto che alla longevità estrema di essi: la selezione naturale non “spinge” affinché un corpo duri centinaia di anni, ma perché funzioni abbastanza a lungo da trasmettere efficacemente i geni. Da questo punto di vista, dunque, i processi che determinano l’invecchiamento sono spesso quei processi che non vengono eliminati perché agiscono dopo il periodo riproduttivo. Scorrendo le prime pagine, troviamo esposta la teoria del tasso metabolico: se il metabolismo è molto elevato, si generano più sottoprodotti reattivi (ad esempio, i radicali liberi) che possono danneggiare molecole e cellule. La nostra specie non presenta un metabolismo elevatissimo, ma senz’altro più alto rispetto ad altri mammiferi e ovipari, che in effetti, in taluni e non pochi casi, risultano più longevi dell’uomo. Le eccezioni non mancano, sebbene la teoria sembri avere una certa attendibilità misurata con una buona e misurabile prevedibilità.

Un’altra teoria esposta è quella del danno cumulativo: secondo tale teoria, con il tempo si accumulano danni molecolari (DNA, proteine, mitocondri) che riducono la capacità dell’organismo di funzionare. La teoria è suggestiva, perché introduce per certi versi l’idea che non siamo “programmati” per morire, ma che la morte giunga inevitabilmente a causa del cedimento dei meccanismi di riparazione e manutenzione biologica. Si evidenzia il fatto che sistemi biologici altamente complessi, come quello umano, richiedono più “sistemi di manutenzione” che lavorino instancabilmente per molto tempo e in maniera interconnessa. L’accadimento di piccoli danni, quindi, è naturale e prevedibile, la ‘macchina’ umana ne tiene conto, ma con il passare del tempo essi non vengono riparati e aumentano, andando a riguardare sempre più organi. Il sistema entra in crisi e, volendo usare una metafora, l’invecchiamento consiste proprio in tale crisi del sistema, dovuta all’accumulo di danni non riparati e non più riparabili. Per riassumere, maggiore è la complessità dell’organismo, maggiore è la vulnerabilità al suo invecchiamento. Anche in caso, però, non mancano eccezioni. Ci torniamo fra poco, perché prima bisogna introdurre un sistema di riparazione su cui si concentra Ramakrishnan. Da abile e apprezzato divulgatore, ci spiega in maniera semplice il cosiddetto mTOR, ovvero il mechanistic Target of Rapamycin, una chinasi proteica che funziona come regolatore centrale della crescita, della proliferazione e del metabolismo cellulare. In poche parole, mTOR coordina le risposte delle cellule alla disponibilità di nutrienti e ai fattori di crescita, controllando processi fondamentali come la sintesi proteica, l’autofagia e la sopravvivenza cellulare. mTOR è un regolatore chiave che stimola la crescita e la divisione delle cellule quando sono presenti nutrienti e segnali di crescita; controlla la velocità con cui le cellule producono nuove proteine, regolando il sistema di traduzione; contribuisce a coordinare il metabolismo cellulare in base alla quantità di energia e nutrienti disponibili; regola il processo con cui le cellule degradano e riciclano le proprie componenti danneggiate o superflue; in ultimo, partecipa anche alla motilità cellulare, alla sopravvivenza delle cellule e all’attivazione dei recettori dell’insulina. Inutile dire che interagire farmacologicamente con tale meccanismo potrebbe rallentare l’invecchiamento di processi metabolici, e non a caso questa è la strada intrapresa da alcuni farmaci, con successi, tuttavia, ancora molto discutibili.

Tra i meccanismi centrali alla base dell’invecchiamento cellulare, connessi al danno cumulativo, vi è la senescenza cellulare, termine che indica lo stato in cui le cellule smettono di dividersi correttamente (presentando anche un accorciamento dei telomeri, le “calotte” del DNA), o cessano del tutto la riproduzione cellulare, iniziando a secernere fattori dannosi che innescano a loro volta diffusi fenomeni infiammatori. Ora, la senescenza cellulare è essa stesso un processo naturale di difesa dell’organismo contro il rischio di un eccesso di proliferazione: essa rappresenta – in altre parole – una barriera contro il cancro; al contempo, però, l’accumulo di cellule senescenti contribuisce all’invecchiamento tissutale e sistemico. La morte cellulare, l’interruzione del suo ciclo continuo di divisione, sono processi cruciali – sottolinea il nostro autore – per comprendere il motivo per cui il corpo non può “rigenerarsi all’infinito”, come sostengono illusoriamente alcuni transumanisti. L’accumulo di “scarti cellulari” e il fallimento dei meccanismi di pulizia come l’autofagia aggravano lo stato infiammatorio e certificano l’interconnessione sistemica interna ad ogni organismo.

Per riassumere la proposta teorica illustrata nel volume, Venki Ramakrishnan (autore di un altro importante libro divulgativo dedicato al genoma e intitolato La macchina del gene, edito in italiano sempre per Adelphi), offre una visione dell’invecchiamento alla luce della teoria della selezione naturale calata a livello della vita cellulare, vita che ha il suo centro e scopo nella propria riproduzione controllata e specifica per funzioni. Tuttavia, il continuo e sofisticatissimo ciclo di divisione del DNA comporta inevitabili rotture e difetti, molto più frequenti di quanto possiamo immaginare, già dai primi istanti della vita cellulare. L’evoluzione degli organismi pluricellulari sembra sia andata proprio nella direzione di creare risposte difensive e rimedi immediati a questi continui difetti riproduttivi. Ma se le capacità di controllo della riproduzione cellulare mirano a bloccare l’insorgenza dell’indiscriminata e pericolosa divisione cellulare nelle prime fasi di vita dell’organismo, evitando in sostanza il cancro, dall’altro lato portano, col tempo, a un deperimento della cellula stessa.
“La risposta al danno del DNA si è evoluta per bilanciare il rischio tra cancro e invecchiamento”, afferma il genetista premio Nobel, che focalizza l’attenzione dei suoi lettori su altro attore cruciale: la proteina p53 (o soppressore tumorale P53), il cosiddetto “guardiano del genoma”. Quasi il 50% di tutti i tumori hanno una proteina p53 mutante (la percentuale arriva al 70% in alcune forme di cancro). Quando viene rilevato un danno, la p53 viene attivata e si accumula innescando la produzione di altre proteine funzionali alla riparazione del DNA. Quando il danno è ingente, la p53 riesce ad attivare i geni che inducono la morte cellulare. Ogni essere umano eredita una solo copia del gene per la p53 da ciascun genitore, mentre altri mammiferi come gli elefanti ne hanno venti copie. Dato interessante che spiegherebbe l’eccezione cui più sopra accennavo: gli elefanti (ma lo stesso discorso vale anche per le balene) sono enormemente più grandi noi e hanno miliardi di cellule in più; da un punto di vista statistico, quindi, dovrebbero essere più facilmente esposti al cancro, e invece sono mammiferi più longevi di noi esseri umani. In generale – afferma l’Autore senza abbandonare una certa cautela epistemica – “sembra esserci una forte correlazione tra una elevata espressione dei geni riparatori del DNA e la longevità”.

Per concludere, se a dispetto degli enormi passi avanti compiuti dalle scienze dell’aging la combinazione fondamentale che causa l’invecchiamento nell’uomo è ancora da accertare, potremmo nel frattempo, senza inseguire falsi miraggi, seguire i consigli di Ramakrishnan e accontentarci di alcune soluzioni palliative ma di sicuro impatto individuale e sociale, come la riduzione controllata dell’apporto di nutrienti: “consumare meglio”, gestire lo stress metabolico, ottimizzare la manutenzione biologica. Soluzioni che se non garantiscono una (irraggiungibile) eternità, offrono almeno la possibilità di una sana longevità.


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