A tutti noi sarà capitato almeno una volta di imbatterci in scene come queste: un giovane cassiere che si rivolge a una cliente anziana chiamandola “nonnina”, o un caregiver che, con tono affettuoso, dice al suo assistito che “è l’ora di fare la pappa”. Si tratta di espressioni comuni, usate con un tono dolce e un intento affettuoso, rivolte a persone anziane percepite come fragili e bisognose di protezione. Eppure, questo modo di parlare, noto come elderspeak, rischia di diventare dannoso. Negli ultimi anni, infatti, sempre più studiosi hanno messo in luce gli effetti negativi di questo tipo di comunicazione: imparare a riconoscerla è dunque il primo passo per diventare più consapevoli di quanto il linguaggio che adottiamo influisce sulla salute e sulla qualità di vita delle persone anziane.
Che cos’è l’elderspeak?
L’elderspeak è una modalità di comunicazione stereotipata e spesso inconsapevole utilizzata nei confronti delle persone anziane (dall’inglese elder = anziano e speak = parlare). È caratterizzato da modifiche nel tono di voce, nel lessico e nella gestualità che, invece di facilitare la comunicazione, rischiano di infantilizzare e depersonalizzare chi ascolta.
Questo tipo di linguaggio si riconosce da alcuni segnali comuni. Il tono di voce è generalmente più alto, come se si desse per scontato un problema di udito, ed è spesso accondiscendente o estremamente dolce. Le parole vengono semplificate (per esempio, “andare a nanna” invece di “andare a dormire”), con un utilizzo frequente di diminutivi o vezzeggiativi, accompagnato da nomignoli come “nonnino”, “cara”, “tesoro”, “bella signorina”, “vecchina”. Questo è problematico non solo perché gli anziani meritano lo stesso rispetto che si riconosce a un qualsiasi altro adulto, ma anche perché il nome è parte integrante dell’identità di una persona: sostituirlo con un vezzeggiativo significa sminuirla e privarla di un riconoscimento fondamentale. Un altro segnale molto comune è l’utilizzo del “noi”, soprattutto da parte dei caregiver, spesso accompagnato da domande retoriche che sembrano voler coinvolgere ma, di fatto, limitano la scelta, diventando un modo per controllare le azioni. Ad esempio, dire “Andiamo a lavarci i denti?” o “Sono le cinque! Dobbiamo prendere la pastiglia” è scorretto, perché il caregiver non è né colui che si deve lavare, né colui che deve prendere il farmaco. La stessa limitazione dell’autonomia si verifica quando si completano i pensieri o le frasi altrui. Infine, questo tipo di comunicazione si esprime anche attraverso la gestualità, mimando le parole oppure applaudendo di fronte ad azioni semplici e quotidiane in maniera del tutto inappropriata.
L’elderspeak viene spesso paragonato al “baby talk”, un’altra espressione inglese che indica il modo in cui generalmente ci rivolgiamo ai bambini molto piccoli. Tuttavia, mentre per i bambini queste semplificazioni, la cadenza rallentata e l’enfasi nel tono di voce possono facilitare l’apprendimento del linguaggio, nel caso delle persone anziane, soprattutto se prive di disturbi cognitivi, risultano soltanto dannose e irrispettose.
Quando il linguaggio diventa discriminazione
L’elderspeak è una manifestazione comune del pregiudizio ageista che considera gli anziani come persone fragili, sia dal punto di vista fisico (con limiti linguistici o uditivi), sia da quello cognitivo (con difficoltà di comprensione o di memoria). Questa visione stereotipata e riduttiva dell’invecchiamento non è solo irrispettosa o inappropriata, ma come ogni forma di discriminazione, ha conseguenze concrete sul benessere della persona che la subisce.
L’elderspeak abbassa l’autostima delle persone anziane, le quali spesso riconoscono in quel linguaggio lo stesso modo con cui si rivolgevano a figli e nipoti. Nonostante si tratti di persone adulte con alle spalle una vita di esperienze, con dei valori e un’identità personale ben definita, ci si rivolge a loro come se fossero persone dipendenti, fragili e bisognose di aiuto, da compatire. Questo alimenta anche l’ageismo autodiretto: secondo la Stereotype Embodiment Theory sviluppata dalla professoressa Becca Levy, gli anziani interiorizzano gli stereotipi e, di conseguenza, adottano quei comportamenti, confermando così agli occhi degli altri i pregiudizi sociali. Questo provoca sentimenti di rabbia, frustrazione e risentimento, danneggiando la salute mentale e favorendo forme di depressione legate alla perdita di controllo sulla propria vita. Dal punto di vista clinico, i danni sono ancora più gravi: numerosi studi hanno dimostrato che l’elderspeak riduce l’adesione alle terapie, aumentando il rifiuto delle cure. Infatti, se il paziente anziano non si fida più del suo medico perché non si sente rispettato, sarà meno incline ad accettare i suoi consigli e il suo aiuto. In particolare, è stato dimostrato che l’elderspeak raddoppia il rifiuto dei trattamenti nel contesto delle cure a lungo termine, soprattutto nei pazienti affetti da demenza. Infine, partendo da un presupposto ageista, l’elderspeak mina i fondamenti di una comunicazione autentica e rispettosa, contribuendo così anche al declino cognitivo di chi lo subisce.
Non tutto è elderspeak
Non tutto ciò che si dice agli anziani con dolcezza è sintomo di ageismo. È naturale adattare il proprio linguaggio a chi ci sta di fronte. Ad esempio, non è affatto discriminatorio rivolgersi con nomignoli affettuosi a una persona anziana cara, come un nonno o una zia. Inoltre, in presenza di difficoltà cognitive, può essere utile parlare più lentamente, usare termini semplici e frasi brevi per facilitare la comprensione e l’interazione. Tuttavia, le caratteristiche specifiche dell’elderspeak, come un tono di voce esageratamente accondiscendente, l’uso del “noi” o di domande retoriche e paternalistiche, e l’eccessivo impiego di diminutivi ed espressioni infantilizzanti, sono dannose e dovrebbero essere evitate, anche se si tratta di un nostro caro: questi modi di comunicare rischiano di limitarne l’autonomia, di ledere la sua dignità e di compromettere la sua salute.
Verso una comunicazione più rispettosa
Comprendere e riconoscere l’elderspeak è un passo fondamentale per migliorare la qualità della comunicazione con gli anziani, rispettandone la personalità e favorendo il loro benessere psicosociale. Adottare uno stile comunicativo autentico e rispettoso può quindi contribuire a contrastare i pregiudizi legati all’età e a sostenere un invecchiamento dignitoso e inclusivo.
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