La diade è un concetto trasversale che possiamo riconoscere in diverse discipline tra cui la psicologia, la sociologia e, soprattutto negli ultimi decenni, anche in medicina.

È definita come “una relazione socialmente impattante tra due individui, dove un cambiamento a livello sociale, economico o di salute a carico di uno dei due membri influisce inevitabilmente sull’altro”. La diade più semplice da individuare è quella formata dalla mamma e dal neonato, oppure da una persona malata e il caregiver, figura che può essere ricoperta da chiunque abbia un legame sociale con il paziente.

Io e te siamo una diade?

Becker e Useem (1942) hanno definito la diade come: “due persone con relazioni intime che persistono per un tempo sufficiente alla formazione di un modello di interazione tra personalità”.

Da questa definizione si possono estrarre tre caratteristiche fondamentali:

  • si forma solo se il rapporto è prolungato nel tempo;
  • esiste solo se vi è interazione tra i due membri;
  • si manifesta con il coinvolgimento e una dipendenza tra i due membri.

Questi criteri suggeriscono che nella diade deve esserci una vera mutualità, infatti George Levinger (1972) ha approfondito questo aspetto sostenendo che “le azioni e gli attributi di ciascun partner sono significativamente influenzati dalle azioni, opinioni ed esperienze dell’altro”, non limitando, quindi, il legame alle mere azioni quotidiane, ma estendendole anche alle esperienze.

La diade nella ricerca scientifica…

Alla luce di queste definizioni, cambia il focus in ambito di ricerca scientifica.

Nella ricerca diadica, ovvero lo studio che considera la coppia e la loro interazione come unità di analisi, l’attenzione non è più sull’individuo, ma sui due membri della diade e sulla loro relazione. La diade può essere l’unità di analisi in ogni fase del processo di ricerca, dalla concettualizzazione del problema, ai metodi e all’interpretazione dei dati. In particolare:

  • nella concettualizzazione il problema deve essere formulato a livello della struttura delle due persone;
  • nel campionamento i partecipanti devono essere selezionati in base alla loro appartenenza a una diade;
  • l’analisi dei dati deve essere interdiadica, fornendo informazioni sulle interazioni presenti tra individui o tra diadi.
  • l’interpretazione dei risultati non deve riguardare solo le caratteristiche individuali.

L’incoerenza nello studio delle diadi deriva spesso dalla mancanza di una focalizzazione costante su entrambi membri e sulla loro relazione durante l’intero processo di ricerca.

… e nella pratica clinica

L’approccio clinico diadico più famoso è in ambito pediatrico. Infatti, con la pratica del rooming in, lanciato da OMS e da UNICEF, si ritiene che tenere la culla del neonato accanto al letto della madre anziché in una nursery migliori l’allattamento al seno.
Più complesso è l’approccio diadico nei confronti delle patologie croniche, dove troviamo numerosi esempi di diade in patologie cliniche croniche come scompenso cardiaco, ictus, patologie oncologiche o neurodegenerative e demenze. Lyons (2018) ha definito come sia necessario approcciare la ricerca e la clinica nei confronti dei pazienti affetti da queste patologie SOLO con un’ottica diadica qualora sia presente il caregiver.

L’approccio prevede:

  • Dyadic Appraisal, ovvero come i due membri della diade si approcciano e valutano la gravità della malattia;
  • Dyadic Behaviours, ovvero come i due membri partecipano ad attuare comportamenti corretti nella gestione quotidiana;
  • Dyadic Health, ovvero la salute mentale e fisica di entrambi i membri.

Molte sono le linee guida internazionali sulla gestione di queste patologie croniche che suggeriscono un approccio diadico verso la malattia per ottenere risultati positivi, ma l’adozione di questa metodologia da parte delle strutture sanitarie, dei professionisti e dei ricercatori rimane ancora limitata.

 

A cura di Cristian Vairo

Bibliografia


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