Che cos’è (e cosa non è) una teoria

Elaborare una teoria significa sviluppare un sistema coerente di idee che permetta di spiegare e comprendere un insieme di dati empirici.  

Le teorie non sono generalizzazioni empiriche: osservare la regolarità con cui si ripetono eventi nel corso di una osservazione sistematica non fornisce una spiegazione.

Le teorie non sono nemmeno modelli, dove per “modello” si intende un prototipo di come le generalizzazioni empiriche possono essere correlate tra loro, basato sulla statistica. I modelli descrivono; non forniscono ancora una spiegazione, né del come né del perché.

L’utilità di una teoria è individuata ne:

  • L’integrazione delle conoscenze: una buona teoria dovrebbe raggruppare i diversi risultati della ricerca empirica e incorporarli in una formulazione sintetica capace di descrivere i collegamenti tra le osservazioni cruciali, le variabili e i costrutti teorici.
  • La spiegazione delle conoscenze: una buona teoria non dovrebbe limitarsi a descrivere, ma dovrebbe anche spiegare come e perché i dati che emergono dalla ricerca sono correlati, in una modalità coerente che incorpori gli antecedenti e le conseguenze dei risultati empirici
  • La capacità predittiva: una buona teoria dovrebbe permettere di fare delle ipotesi su ciò che ancora non sappiamo, indirizzando la ricerca verso nuove scoperte, basate sui suoi presupposti e principi

A queste caratteristiche, che riguardano la capacità di una teoria di fornire conoscenza, se ne aggiunge una quarta che ha invece un carattere pratico, applicativo, quindi anche politico:

  • La capacità di sviluppare interventi per migliorare la condizione umana: una buona teoria dovrebbe servire per risolvere il problema o alleviare le condizioni indesiderate: “Se non capisci perché, come fai ad aggiustarlo?”

L’Evoluzione della specie di Darwin, la Relatività generale di Einstein, il Big Bang di Georges Lemaître, le cosiddette Leggi di di Mendel sono esempi di teorie. Tutte, oltre ad elaborare un sistema integrato e coerente in grado di spiegare le osservazioni e fare previsioni, hanno avuto risvolti sociali, culturali e ideologici di una qualche portata. 

Nell’ambito dell’invecchiamento possiamo distinguere, per citarne solo alcune, le teorie fisiopatologiche, che offrono spiegazioni sui meccanismi del processo di invecchiamento e le teorie evolutive, che invece cercano di spiegare perché la selezione naturale non ha eliminato l’invecchiamento e la morte. Nelle prime rientrano le teorie wear-and-tear, che riconducono l’invecchiamento a un progressivo esaurirsi delle risorse dell’individuo, o la teoria dei radicali liberi, secondo cui gli organismi invecchiano a causa di particolari reazioni chimiche che danneggiano le cellule e il metabolismo. Dal punto di vista evolutivo, una delle ipotesi è che l’invecchiamento e la morte sopraggiungano per lasciare agli individui in età riproduttiva le risorse ambientali necessarie alla loro sopravvivenza.

 

Come nasce una teoria?

Nella storia della scienza l’utilità e la possibilità di costruire teorie, soprattutto secondo le caratteristiche descritte sopra, sono state messe in dubbio a livello epistemologico. 

Una teoria, infatti, si sviluppa in un momento storico ben preciso, a partire da dati preesistenti, con i metodi e gli strumenti disponibili, per rispondere alle esigenze di persone che vivono in una cornice storica, ambientale, culturale e sociale. La teoria, insomma, è figlia del contesto da cui emerge e del relativo sistema di valori. Ma è anche capace di agire su quello stesso contesto che l’ha generata, modificandolo. Nuove condizioni, a loro volta, possono produrre nuove teorie. 

Come conseguenza principale di questa dialettica, ciò che appare vero in un determinato momento del progresso scientifico può essere smentito al sopraggiungere di dati empirici che la teoria non riesce a integrare, squalificando del tutto o in parte la conoscenza acquisita fino a quel punto. Questo è, di fatto, quello che accade nella storia dell’umanità, costellata di teorie che si credevano verificate e che poi si sono rivelate non-vere. Le teorie non sono dogmi assoluti e definitivi, ma interpretazioni provvisorie, valide “qui ed ora” e “fino a prova contraria”. La scienza, allora, si configura come un percorso cumulativo di ricerca della verità che avanza per prove ed errori, sulle “macerie” delle congetture precedenti, generando fraintendimenti, rifiuti e rettifiche. 

Se assumiamo che il grado di perfezione di una teoria dipenda dal suo grado di universalità e di neutralità spazio-temporale, cioè dalla sua capacità di rimanere vera al mutare delle condizioni, scoprire che una teoria è falsa significa prendere atto di un fallimento. Ma significa anche avere un nuovo punto di partenza per nuove supposizioni. Dunque la provvisorietà è la condizione che ci permette di avanzare nella conoscenza

 

Il dibattito epistemologico sul progresso scientifico

A tal proposito, nella prima metà del ‘900 l’epistemologo Karl Popper formulò il principio di falsificabilità, secondo cui una teoria è scientifica solo a condizione che possa essere falsificata. Se un sistema di pensiero non può entrare in conflitto con i fatti – almeno in linea di principio – significa che non può essere considerato come dottrina scientifica. Il principio si basa sulla asimmetria tra verificazione e falsificazione: molteplici conferme non sono sufficienti a verificare una teoria, perché non escludono la possibilità che accada un evento in grado di falsificarla. D’altra parte, è sufficiente che un singolo fatto non si accordi con la teoria per confutarla. 

A condurre Popper verso questa conclusione fu la conferenza che Albert Einstein tenne a Vienna nel 1919. In quella occasione, Einstein dichiarò che avrebbe considerato insostenibile la sua Teoria della Relatività generale nel caso in cui avesse dovuto fallire alla prova dei fatti. Popper rimase profondamente impressionato da questo nuovo modo di intendere la ricerca scientifica: per la prima volta non si andava alla ricerca di verificazioni e verità indubitabili ma di prove cruciali, cioè di falsificazioni. 

Quarant’anni più tardi Thomas Kuhn mise in discussione la prospettiva di Popper, affermando che  il progresso scientifico non consiste affatto in un continuo fermento di idee. Veri e propri ribaltamenti teorici, al contrario, avvengono molto di rado nella comunità scientifica. Di solito – cioè nei lunghi periodi di scienza normale, come Kuhn la definisce  – la comunità scientifica aderisce a un determinato paradigma e mette in campo tutte le proprie forze per difenderlo, cercando di ricondurre a quel paradigma tutte le eventuali anomalie riscontrate nelle osservazioni empiriche: se qualcosa non si accorda con la teoria il difetto non è della teoria, ma dello scienziato, che non è ancora arrivato alla soluzione. Secondo Kuhn è solo nei periodi di scienza straordinaria – estremamente rari – che gli scienziati abbandonano il paradigma avviando una rivoluzione scientifica, e precisamente nel momento in cui non riescono più ad inglobare i casi ostili nel paradigma. Il passaggio a un nuovo paradigma avviene a causa di rompicapo  irrisolti.

 

A che cosa serve davvero una teoria?

Nel progresso scientifico le discontinuità, gli strappi, le divergenze fra teoria ed esperienza hanno una forza propulsiva perché ci inducono a guardare la realtà con occhi diversi, ad abbracciare un orientamento fallibilista e dunque un atteggiamento di apertura verso i fatti. Arricchiscono il contenuto  informativo della teoria e rappresentano la condizione di possibilità per gli upgrade della conoscenza scientifica.

Il valore principale di ogni teoria, quindi, si colloca al di fuori della teoria stessa, nel costruire la conoscenza in modo sistematico e cumulativo, cosicché gli sforzi empirici portino all’integrazione con ciò che è già noto e ci aiutino a vedere lacune o incongruenze. 

Ma esiste anche un valore intrinseco alla singola teoria, che riguarda il carattere pratico di cui dicevamo all’inizio: ogni teoria ci fornisce una lente attraverso la quale possiamo osservare i fenomeni fisici, biologici o sociali, decifrare il loro funzionamento e prendere decisioni per la nostra vita. Anche se la teoria costituisce un punto di vista parziale, questo punto di vista determina il nostro campo visivo e ha una funzione orientante per il nostro rapporto con la complessità del reale. In assenza di una lente ciò che viene a mancare è l’orizzonte di senso che, mettendo ordine nel caos, rende possibile la formulazione di previsioni e l’azione in vista di scopi, e quindi la vita stessa.

A cura di Rossella Failla


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