Capire il “medichese

Quante volte ci siamo sentiti smarriti al momento di leggere il referto del nostro medico, o quando chiediamo a degli specialisti approfondimenti sui malori che ci affliggono, sugli effetti dei farmaci, o dopo una degenza ospedaliera sfogliamo la nostra cartella clinica comprendendone (quasi) nulla. Eppure quelli che vediamo scritti sono dati cruciali che ci riguardano direttamente, storia intima di parti del nostro corpo, della nostra psiche, esposti da altri in termini di diagnosi e terapia. Il ‘medichese’ sembra davvero un linguaggio altro dall’italiano che usiamo (seppur maldestramente) tutti i giorni. Non a caso, per questo alone di mistero, il termine ha una comprensibile connotazione negativa: ci infastidisce non riuscire a comprendere informazioni sulla nostra salute, sulla nostra persona. E ci rassegniamo affidandoci completamente alle mani dell’esperto.

Abbiamo oggi a disposizione una guida che ci consente, se non di decifrare, quanto meno di penetrare con curiosità negli specialismi del linguaggio medico italiano, attraverso i meccanismi linguistici che lo contraddistinguono e la storia di alcuni lemmi. Si tratta del libro di Rosa Piro, L’italiano della medicina, appena uscito per l’editore Carocci nella collana Bussole.

Il nostro linguaggio medico – scrive l’autrice – è una varietà della lingua comune, e come altri linguaggi specialistici non può fare a meno della lingua italiana di cui è parte e senza la quale non esisterebbe: ne condivide strutture fonetiche, morfologiche, sintattiche, testuali, enfatizzando alcuni tratti a scapito di altri. Vediamo alcuni esempi che propone Piro, partendo da una constatazione: l’italiano della medicina è particolarmente devoto alla sinteticità e densità informativa, per cui, in poche righe, vengono fornite, anzi, devono essere fornite, molte informazioni.

All’altare della sintesi e dell’obiettività viene sacrificato l’uso dei verbi, grazie a meccanismi retorici, uno su tutti la “nominalizzazione”. Le frasi del linguaggio medico sono povere di verbi, e tale scarsità ha una rilevante, immediata conseguenza, che lo porta lontano dalla lingua italiana comune: mancanza di azioni e di soggetti/agenti che le compiono, compendiata da uno smodato uso di sostantivi. Il risultato è un testo impersonale (diciamo pure spersonalizzato), imparziale, astratto e, come si suole dire, oggettivo. Ed ecco allora che una frase che diremmo normalmente in questo modo: “i farmaci vengono somministrati ai pazienti”, diventa: “somministrazione dei farmaci”. La nominalizzazione asciuga la frase andando a eliminare soprattutto le subordinate (le prime a cadere sono quelle causali), per cui: “L’infezione avviene per ingestione di cisti…” e non “L’infezione avviene perché sono state ingerite dal soggetto delle cisti… “

Fateci caso, le frasi nominali sono tanto frequenti nel linguaggio medico quanto rare nell’italiano comune (letterario e parlato): “[Le] pareti addominali [sono] integre. [La] cavità perineale [è] libera. Non [vi sono] segni di congestione polmonare. [Nel] cavo orale: non [si registrano] reparti di rilievo”.

In poche parole, è la funzione agentiva del verbo ad essere depotenziata nell’italiano della medicina, rispetto alla lingua comune, in cui il verbo ha invece una forte carica informativa. La preferenza per la costruzione passiva va nella stessa direzione: cancellare l’agente. Ma attenzione! Quel che si elimina è solo l’agente umano, in virtù di quella pratica diffusa nel linguaggio scientifico di non personalizzare mai il proprio testo, pena la non adeguata scientificità. Solo che questi artifici retorici arrivano a degli esiti talvolta bizzarri, personalizzando sostantivi inanimati.

Rosa Piro riporta in merito alcuni brani dal noto Manuale di medicina di Harrison. Bisogna riconoscerlo, questa tendenza retorica – chiamiamola così – è particolarmente in voga nei testi anglosassoni, che vengono tradotti, forse, un po’ troppo fedelmente. Leggere per credere: “Ogni citochina pirogena ha dimostrato, in studi di laboratorio su animali e nell’uomo, di produrre febbre”. Oppure: “Gli antidepressivi hanno dimostrato di esercitare un effetto positivo nei pazienti affetti da tinnito”. Si richiede molta fantasia al lettore italiano per credere che una citochina pirogena, proteina di piccole dimensioni, riesca a dimostrare da sé di produrre febbre, come pure che un antidepressivo si metta a dimostrare la sua efficacia. Semmai gli antidepressivi, in quanto farmaci, più che il potere di dimostrare, hanno la capacità di esercitare degli effetti positivi.

Il volume di Rosa Piro, oltre a svelarci questi e altri meccanismi retorici, ci fa immergere nella storia della lingua italiana, restituendoci un breve quanto interessante excursus sull’introduzione di termini che, dal gergo medico, sono passati talvolta nell’uso quotidiano e viceversa. D’altronde, non deve troppo sorprendere tale fenomeno. Il compianto storico della lingua italiana, Luca Serianni, distingueva i tecnicismi specifici da quelli collaterali, ovvero quei termini che la medicina ha preso in prestito dalla lingua comune cui appartiene, traslandone però completamente il significato. Ad esempio, zona lombare, bocca dello stomaco, collo del piede.

L’influenza, quindi, è stata reciproca, e l’italiano medico non può che seguire le orme del volgare italiano, nella sua nascita ed evoluzione, fin dal Medioevo. Ai tempi di Dante, grosso modo quando il Poeta aveva appena concluso la stesura della Commedia, circolava in volgare fiorentino l’Almansore. Opera precedente di molti anni, era stata scritta in persiano – dedicata al principe Mansur, da cui il titolo – poi tradotta in arabo nel IX secolo, e quindi in volgare fiorentino. Si tratta di un compendio enciclopedico di tutte le discipline allora praticate: anatomia, igiene, veleni, patologie della pelle, febbri, chirurgia. Nella traduzione fiorentina – ci narra Piro – compaiono parole come bocca, cranio, bolle, pungimento, ma soprattutto fanno la comparsa i suffissi –ivo, –ico, –oso e nascono termini come laxativo, enfiatico, idropico. Solo nel XVI secolo, tuttavia, i testi medici vengono direttamente compilati in volgare, come il Compendio di la sanità corporale e spirituale.

La svolta avviene nel ‘600, che corrisponde, come è noto, all’era della rivoluzione scientifica, e la rottura con la tradizione aristotelica e galenica. In campo medico, nell’opera di Francesco Redi (1626-1698), compare la spiegazione di termini come pancreas, emaptoico, mesenterio. Nel ‘700, sulla spinta degli illuministi francesi e italiani, si impose il problema di adottare un lessico scientifico internazionale, e molte furono le parole introdotte, prendendo il calco dal greco antico, allora molto più conosciuto di oggi. I testi avevano un carattere dotto, ma non involuto, aperti al pubblico non specialista, tanto che erano spesso pubblicati in giornali e gazzette, che cominciavano a circolare in tutta Europa sulla spinta della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Altri suffissi prendono piede (-ale, –are, –izzare) per formare parole come analizzare, muscolare, pestilenziale.

E ci piace concludere proprio su questo aspetto creativo della lingua specialistica. Abbiamo fatto cenno ai suffissi, ma il vero estro creatore di neologismi in medicina risiede nei prefissi. Basta apporre un a-, ante-, micro-, meta-, intra-, iper-, ipo-, stra-, sub– e altri ancora davanti a un sostantivo, e avremo ablazione (che sta per asportazione), antecolico (davanti al colon), intragenico (all’interno della struttura del gene), ipoglicemico, subcorneale, ecc. Tale procedimento morfologico è chiamato “prefissazione” e va pienamente incontro alle esigenze di sinteticità e densità informativa, che abbiamo evocato all’inizio e che, dunque, da sempre caratterizzano l’italiano della medicina. Pensiamo oggi ai nuovi termini introdotti dall’assistenza a distanza: telemedicina, teleconsulto, televisita, teleassistenza.

Ma attenzione: la prefissazione riesce a svolgere questa funzione perché, nel linguaggio medico, il prefisso mantiene il significato principale che ha anche nella lingua comune. L’influenza e i reciproci condizionamenti che lingua comune e lingua specialistica medica attivano e alimentano – restando entrambi aperti ad apporti esterni, in particolare dalle lingue anglosassoni – testimoniano un carattere peculiare dell’italiano della medicina. Una peculiarità non riscontrabile in tutte le varianti dell’italiano specialistico. La duttilità di quello medico, sottolinea Piro, è dovuta al fatto che esso entra continuamente in contatto con la gente comune, nelle più disparate situazioni comunicative, non ristrette esclusivamente all’ambito accademico.

Un valore aggiunto – crediamo – che dovrebbe spingere gli specialisti ad adottare più spesso strategie comunicative e registri linguistici chiari e più comprensibili.

A cura di Emiliano Loria

Scheda Libro

L’italiano della medicina” 

Rosa Piro

 Carocci, Roma 2022, pp. 125, € 13,00.

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