Il trapianto di rene è una importante possibilità riabilitativa, la miglior terapia sostitutiva della funzione renale nei casi in cui, essasia definitivamente compromessa, evitando così il trattamento dialitico cronico che costringe ad una esistenza sacrificata. L’ospedale Maggiore di Novara ha un Centro specializzato, considerato un punto di riferimento per il trapianto renale non solo per la provincia di Novara, ma in tutta Italia.  Abbiamo chiesto a Michela Lorenzini, infermiera presso l’ambulatorio dei pazienti o candidati al trapianto renale o che l’hanno già effettuato e che vengono seguiti per il follow-up, di raccontarci la sua esperienza.

Qual è stato l’impatto del Covid-19 sulla gestione del Centro e dei suoi pazienti, la cui caratteristica è di avere il sistema immunitario “disattivato” dai farmaci per evitare il rigetto dell’organo trapiantato (i cosiddetti farmaci immunosoppressivi)? 

A livello organizzativo l’impatto del Covid è stato travolgente. I nostri pazienti sono frequentatori abituali dell’Ambulatorio pre e post trapianto e si interfacciano con frequenza variabile e dipendente dalle loro condizioni. Seguiamo circa160 pazienti novaresi e più di 1000 pazienti fuori regione oltre che pazienti da Borgomanero, Verbania, Domodossola, Alessandria, Casale Monferrato, Ivrea, Biella che vengono da noi periodicamente. Durante questo lungo periodo, non ancora purtroppo risolto, i nostri pazienti hanno avuto accessi garantiti per il monitoraggio tramite prelievo ematico, costringendo a tempi di permanenza molto ridotti ed a livello infermieristico di gestione complicata per; il mantenimento del distanziamento sociale, l’attivita di pretriage, la continua disinfezione delle superfici e degli strumenti utilizzati per le attività, la continua riprogrammazione e preparazione di accertamenti che per il diffondersi del problema andavano necessariamente annullati e ridestinati oltre che l’inevitabile attuazione di piano educativo dedicato. Purtroppo l’attività di visita, con l’avvento del Covid ha dovuto per un certo periodo essere sacrificata e ridotta. A marzo abbiamo iniziato a telefonare. a marzo abbiamo iniziato a telefonare loro per riprogrammare i controlli (alcuni li abbiamo spostati 3 o 4 volte), convincendoli a stare alla larga dal Centro, dato che in Ospedale circolava il Covid, e mantenere il contatto con noi solo via telefono o e-mail.
È stato difficile comunicare questo a pazienti estremamente delicati, e che noi avevamo abituato a essere prima di tutto visitati di persona, e poi ascoltati. Proprio nel momento in cui la circolazione di un virus sconosciuto generava molti interrogativi, noi non potevamo più continuare ad avere con loro il tipo di rapporto a cui eravamo abituati, e che avevamo costruito nel tempo. È stato difficile per loro, ma anche per noi. Da un punto di vista infermieristico ha stravolto il nostro modo di lavorare, è stato ed è un periodo veramente difficile, pesante e a tratti logorante che ci ha esposto e ci espone al rischio.

Ha osservato un diverso impatto del Covid, tra la prima e la seconda ondata, sui pazienti trapiantati?

L’impatto della prima ondata è stato sicuramente più pesante. Per molti pazienti la diagnosi è arrivata in ritardo, anche dopo una decina di giorni di ipertermia, con conseguenze gravi: mesi di ricovero in Terapia intensiva, intubati e, per alcuni, un esito fatale.

I trapiantati che si sono ammalati durante la seconda ondata sono riusciti a curarsi da casa, sia perché eravamo riusciti a prepararli ad affrontare la malattia, tempestandoli di nozioni e di raccomandazioni, sia perché il virus sembra essere stato meno aggressivo con i trapiantati. 

La riorganizzazione forzata ha portato qualcosa di utile?

Sì, abbiamo potuto sperimentare la televisita, una proposta tecnologica alla portata nostra e del nostro Ospedale che è stata subito appoggiata dal nostro direttore (professor Vincenzo Cantaluppi). 

Si è rivelata anche alla portata dei nostri pazienti anziani, che al limite si sono fatti aiutare da un nipote per risolvere le difficoltà iniziali di collegamento. La televisita ci permette di vedere in faccia i nostri pazienti, cosa che ci dà molte più informazioni di una semplice telefonata. Inoltre, a differenza delle telefonate che arrivano spontaneamente, per rispondere alle quali dobbiamo interrompere le nostre attività, la televisita può essere programmata e, soprattutto, è un tempo-lavoro riconosciuto, anche a livello amministrativo. 

Qual è l’immagine che si porta dentro, legata alla sua esperienza della pandemia?

Racconto un episodio. A maggio sono stata chiamata in un reparto Covid per effettuare un prelievo ematico ad una nostra trapiantata, questa paziente era ricoverata dai primi di marzo in reparto dedicato a cure sub intensive. Quando mi ha visto, si è commossa e mi ha detto: “Finalmente, dopo mesi, ritrovo un volto noto: ti rendi conto che l’ultima volta che ti ho visto avevi il cappotto e ora hai un golfetto rosa, leggero? Non ne posso più di stare qui. Sapessi per quanti miei colleghi pazienti sono stata l’ultima persona a cui hanno stretto la mano prima di morire…”.  

Ecco, anche per alcuni di quelli che l’hanno superata, la pandemia ha avuto risvolti pesantissimi. Ma soprattutto per noi infermieri, la figura che per professione è deputata ad accudire, a stringere la mano, a raccogliere le emozioni negative ingigantite dalla notte e dalla solitudine. 

Anche quando stacchi dal lavoro e rientri a casa, te li porti dentro quei sentimenti, come corde che senti vibrare. Èun risvolto pesante, ma – mi viene da dire –  meno male che le senti vibrare.

 


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