Se manca il lieto fine

Quarantacinque giorni. Quarantacinque giorni in una RSA ed ecco che una lunga vita fatta di felicità e tristezza, di gioie e di preoccupazioni, di sorrisi o pianti, di lavoro e di vacanze comincia a sfaldarsi come roccia carsica. Se ne va la capacità di prendere in autonomia una qualunque decisione, si sgretola il desiderio di comunicare, ci si abbandona nelle braccia di persone fino ad allora sconosciute. È qui che il legame tra RSA e declino cognitivo diventa evidente: l’isolamento, la perdita di stimoli e la routine istituzionalizzata accelerano un processo già in atto. Poi, passa un anno, e per un anziano su cinque ospite di queste strutture si associano anche gravi disabilità fisiche, che peggiorano sensibilmente quel declino cognitivo ormai irreversibile. E che trasformano gli ultimi anni di vita in un calvario ritenuto, dagli stessi pazienti, più angosciante della morte.

Questo scenario fa emergere in tutta la sua crudezza un paradosso dell’assistenza agli anziani: la “cura”, in alcuni casi, sembra accelerare il declino. Lo dice, con la freddezza e l’implacabilità dei numeri, una ricerca canadese durata cinque anni e pubblicata sulla rivista scientifica JAMA Network Open ad aprile di quest’anno. Gli studiosi hanno seguito oltre 120mila soggetti ultra 65enni ospiti di strutture per lunga degenza, corrispondenti alle nostre RSA, e i risultati hanno squarciato il velo su quello che non si dovrebbe intendere quando si parla di qualità della vita. Eccoli, i numeri: tra i pazienti osservati, il 20% ha perso, in un solo anno di degenza, la capacità decisionale, il 7,7% quella di comunicare e oltre il 13% è diventato totalmente dipendente. Inoltre, quasi un terzo ha sviluppato incontinenza. La sopravvivenza media dopo l’inizio della totale dipendenza è, appunto, di 45 giorni; mentre sviluppare disabilità meno gravi, come l’incontinenza, porta a una sopravvivenza di circa un anno.

Strada senza uscita

Prima di tornare a parlare di numeri, sono opportune alcune considerazioni, partendo dall’osservazione che esiste un rapporto bidirezionale tra deficit cognitivo e ingresso nelle RSA. Gli anziani entrano in una di queste strutture quando la gestione domiciliare diventa difficile, se non impossibile: per esempio, all’insorgere di disturbi comportamentali e neuropsichiatrici che causano agitazione e aggressività in grado di mettere a rischio la sicurezza del paziente. O quando all’anziano viene a mancare la capacità di orientamento, per cui rischia di allontanarsi e perdersi se non è sotto controllo costante.

I risultati della ricerca pubblicata su JAMA Network Open non devono quindi ingannare. Questo “paradosso della cura” non risiede soltanto nell’insorgenza di complicanze e disabilità gravi dal momento dell’ingresso in RSA, ma anche in altri aspetti, presi in esame dallo stesso studio, e che rendono il problema estremamente più complesso. Nell’analisi viene riportato che oltre la metà dei soggetti presi in esame presentavano già una diagnosi di demenza all’ingresso in struttura, di cui quasi il 10% con decadimento cognitivo grave, con necessità di assistenza e supervisione continuativa, e oltre il 20% con incontinenza. Si tratta quindi della drammatica fotografia di una popolazione di anziani fragilissimi, ad alto rischio di accumulare malattie croniche e disabilità, e di subire un impatto tristemente negativo sulla propria qualità della vita.

E questo aspetto apre un delicatissimo capitolo che riguarda l’opportunità di cura, la qualità della vita ed il trattamento di fine vita. L’assistenza del paziente anziano in RSA dovrebbe essere guidata dal desiderio e dagli obiettivi del paziente – osserva l’articolo – garantendo sempre la massima dignità e qualità di vita sia per il paziente che per il caregiver. Un’assistenza sanitaria che si ponga come obiettivo primario solo il prolungamento della sopravvivenza, può condurre l’anziano fragile a condizioni che lo stesso paziente può considerare peggiori della morte, come perdere completamente ogni autonomia nella vita quotidiana, dal mangiare, lavarsi o vestirsi autonomamente fino all’incapacità di alzarsi dal letto.

Il paradosso prosegue nel fatto che, sempre in Canada, circa il 70% dei residenti in strutture di lungodegenza è considerato non suscettibile di trattamento rianimatorio, cioè si tratta di pazienti talmente fragili che non sopporterebbero procedure invasive, sui quali anche le manovre rianimatorie non porterebbero alcun beneficio. Perseguire un’assistenza focalizzata esclusivamente sul prolungamento della vita, quando una persona vive in uno stato che ritiene addirittura peggiore della morte, è contrario ai principi dell’assistenza centrata sulla persona, a cui le strutture sanitarie dovrebbero aspirare, conclude lo studio.

Cosa succede in Italia

L’Italia, il secondo Paese più anziano al mondo con quasi 14 milioni di over 65 (siamo secondi solo alla Svizzera, a “pari merito” con il Giappone), sta assistendo a un progressivo aumento della domanda di assistenza a lungo termine sia domiciliare (ADI), sia semiresidenziale o residenziale (RSA). Dal 2014 al 2023, il numero di chi beneficia dell’ADI è più che raddoppiato, raggiungendo circa 546.000 over 65 nel 2023, mentre gli anziani residenti in RSA sono cresciuti a oltre 400.000 nello stesso anno, con una significativa variabilità locale. Alcune zone, come la Provincia Autonoma di Trento, presentano quasi il 10% di over 65 in RSA, mentre altre, come Campania e Basilicata, presentano tassi inferiori all’1%. Tuttavia, grandi disparità territoriali nell’offerta assistenziale e nella qualità dei servizi costituiscono ancora pesanti ostacoli; la copertura delle RSA, infine, soddisfa soltanto il 7,6% del fabbisogno di assistenza per anziani non autosufficienti, cifra che costituisce un grave divario tra domanda e offerta.

Gesti semplici, ma efficaci

Evidenziato il legame tra decadimento psicofisico e ricovero in struttura, non resta che analizzare le ragioni del progressivo scadimento delle condizioni cliniche del paziente anziano in struttura, cercare soluzioni e chiedersi se un “freno” a questa decadenza può essere ricercato “prima”.

Il declino cognitivo e funzionale osservato dopo l’ingresso in RSA può avere molteplici cause, talvolta concomitanti. Le cadute frequenti, per esempio, possono facilmente compromettere l’autonomia di movimento residua; il delirium, un grave stato confusionale acuto spesso scatenato da infezioni, uso di cateteri o contenzioni, può lasciare gravi conseguenze cognitive; la malnutrizione, causata da difficoltà di deglutizione e perdita di appetito, favorisce infezioni e piaghe da decubito; l’immobilità peggiora le piaghe da decubito e alimenta il declino fisico e, infine, la depressione e l’isolamento sociale come conseguenze del decremento delle capacità funzionali e della perdita di privacy e socialità, elementi essenziali per la qualità della vita. Tutti questi fattori concorrono a dare vita a un circolo vizioso di peggioramento difficile poi da scardinare senza attenzione e azioni mirate.

Il declino dell’anziano ricoverato in una struttura a lungo termine può essere limitato, innanzitutto, con un’assistenza di qualità, basata su una formazione adeguata del personale sanitario e gesti semplici, ma efficaci: garantire una corretta idratazione, un’attenta gestione del dolore, prevenire le cadute e promuovere attività sociali e cognitive stimolanti. Elementi fondamentali sono anche il rispetto della privacy e la possibilità per gli anziani di avere spazi personali per ritirarsi e mantenere una parvenza di autonomia. In Italia, purtroppo, la cronica carenza strutturale di personale qualificato (medici, infermieri e operatori socio-sanitari) nelle RSA può limitare la capacità di offrire questa assistenza personalizzata e di qualità.

Non perdere tempo: l’importanza della prevenzione

La strategia più efficace per evitare che molti anziani finiscano in RSA in condizioni già compromesse va ricercata anch’essa nella prevenzione. Interventi mirati possono limitare fino al 40-45% i casi di declino cognitivo e demenza, agendo su fattori modificabili quali il basso livello di istruzione, la cattiva salute cardiovascolare (ipertensione, obesità, diabete), l’isolamento sociale e i problemi di salute mentale, orale e uditiva.

Sono molti gli studi in corso che propongono modifiche dello stile di vita – come un’attività fisica regolare, un regime nutrizionale sano aderente ai principi della dieta mediterranea, un costante training cognitivo – come approccio di prevenzione del declino cognitivo. Nel nostro Centro è in corso da poco più di un anno lo studio IN-TeMPO, coordinato dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca, i cui primi risultati, su una larghissima popolazione italiana, sono attesi nei prossimi mesi. L’Italia, proprio per la sua condizione di Paese molto anziano, si trova di fronte a una sfida epocale con una popolazione in rapido invecchiamento e un sistema di long-term care che deve velocemente evolversi. Rafforzare le cure domiciliari, migliorare la qualità dell’assistenza nelle RSA, colmare il gap di personale e potenziare la prevenzione rappresentano i pilastri fondamentali per garantire una vita degna di essere vissuta. Fino alla fine.

 

Bibliografia

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