I mille volti dei comportamenti ripetitivi
Vent’anni fa, di questi tempi, la terra rossa del Roland Garros di Parigi, cominciava a conoscere l’impronta di un giovane che proprio su quella terra avrebbe scritto una delle più belle pagine del tennis mondiale e dello sport. Rafael (Rafa) Nadal, spagnolo di Maiorca, avrebbe alzato quell’anno – era il 2005 – il suo primo Slam parigino. Ne seguiranno altri tredici, un record ineguagliato per gli Open di Francia, cui si aggiunsero quattro US Open, 2 Wimbledon e 2 Australian Open. E l’oro olimpico. E cinque Davis, con la Spagna. E il n° 1 al mondo per 209 settimane. Numeri unici per una carriera unica. Come unica è stata la sua presenza sui campi, una presenza fatta di eleganza, signorilità, potenza e… gesti. Tanti gesti. Sempre uguali e sempre unici – anche questi – nella loro costante, precisa, minuziosa e ossessiva ripetitività.
Partiamo allora proprio da questi “rituali scaramantici” di Nadal sul campo da gioco per cercare di comprendere le diverse valenze che possono avere molti comportamenti ripetitivi, da quelli considerati accettabili e ritualistici, scaramantici, (come nel caso di Nadal), a quelli involontari (comunemente chiamati tic), spesso già presenti in giovanissima età, per finire a quelli veramente intrusivi, persistenti e potenzialmente debilitanti, i cosiddetti DOC, i Disturbi Ossessivo-Compulsivi. Tra questi comportamenti rientrano spesso anche i rituali scaramantici, che accompagnano e rafforzano la concentrazione e la sicurezza dell’atleta.
Il mistero dell’acqua (in bottiglia)
Chi ha assistito almeno una volta a una partita di Nadal non avrà potuto evitare di chiedersi che cosa spingeva il campione spagnolo, per esempio, ad allineare con millimetrica precisione le due bottigliette d’acqua (una fredda, l’altra a temperatura ambiente, sempre) a una linea immaginaria, con l’etichetta rivolta sempre allo stesso modo; oppure a seguire una rigida procedura nell’utilizzo degli asciugamani. O, infine, come non ricordare l’interminabile sequenza di gesti prima della battuta (che durava, a volte, oltre i 25 secondi concessi dal regolamento…), la celebre “smutandata”? Una veloce ricerca in Rete può far capire meglio di tante parole di che cosa ci stiamo occupando. Tutti questi esempi sono classici rituali scaramantici che, lungi dall’essere semplici superstizioni, hanno una funzione di controllo emotivo.
Ciò che può sembrare decisamente “sopra le righe”, non è in effetti così raro, tutt’altro. Lo stesso Nadal spiegava: “Questo è un modo per riordinare la mia testa, per me che normalmente sono molto disordinato. Sono i mezzi per focalizzare e silenziare le voci interiori. Non ascoltare la voce che mi dice che perderò, o la voce ancora più pericolosa che mi dice che vincerò”. Insomma, un rituale per ridurre l’ansia, un rinforzo positivo: rituali pre-performance non indicativi di disturbi neurologici. Come quando indossiamo sempre la stessa camicia prima di un esame…. Chiamatela pure rituali scaramantici e non solo superstizione.
Il cervello umano è sempre alla ricerca di schemi e connessioni: in situazioni di incertezza o mancanza di controllo (come una partita o un esame, appunto) la scaramanzia offre una sensazione illusoria di poter influenzare l’esito. Se poi si supera l’esame, il cervello rilascia dopamina, un neurotrasmettitore associato al piacere e alla ricompensa, e ciò rinforza il comportamento: così è probabile che all’esame successivo si torni a indossare la stessa camicia. Nonostante la mancanza di una base scientifica per dimostrare l’efficacia dei gesti scaramantici, il sollievo che ne deriva è reale; dal punto di vista neurologico, la scaramanzia può essere vista come un meccanismo di coping (dall’inglese: affrontare), cioè un sistema che il cervello adotta per far fronte allo stress. Stress che così, grazie poi all’intervento dell’amigdala, una struttura cerebrale chiave nella gestione delle emozioni (ansia e paura, in particolare) è mediato con la realtà e posto sotto controllo.
Dove finisce la scaramanzia
I gesti di Nadal, come abbiamo visto, sono rituali, ma la loro automaticità e ripetitività potrebbe farli assomigliare, almeno superficialmente, a dei tic, cioè a movimenti o vocalizzazioni improvvisi, rapidi, ripetitivi ma non ritmici e involontari; vale la pena, a questo punto, esplorare la distinzione tra un rituale volontario e un movimento involontario, perché in quest’ultimo caso la loro comprensione è strettamente compito della neurologia, in quanto si entra nel campo delle disfunzioni dei circuiti cerebrali che regolano movimento e comportamento.
Innanzitutto, classifichiamo i tic, che possiamo dividere in motori e vocali. Entrambi, a loro volta, possono essere semplici (scatti, ammiccamenti…) o complessi (smorfie facciali, toccare ripetutamente oggetti…). Sono spesso esacerbati da stress, ansia, stanchezza, spesso sono preceduti da una sensazione di “urgenza” che si allevia soltanto dopo che il tic si è manifestato, come se esso rappresentasse una sorta di “liberazione”. Scompaiono (o comunque diminuiscono sensibilmente) durante il sonno o quando il soggetto è concentrato su un’attività. Infine, possono essere un fenomeno isolato e transitorio (sono abbastanza comuni nell’infanzia e si risolvono spontaneamente con l’età), ma possono essere parte di disturbi più complessi, la più nota delle quali è la Sindrome di Tourette, un disturbo neuropsichiatrico caratterizzato dalla presenza di tic multipli a cui possono associarsi disturbi del sonno, disturbi neuropsichiatrici e deficit di attenzione e iperattività.
Non tutti i tic richiedono un’azione medica, ma se il loro impatto sulla vita quotidiana è sensibile, l’intervento neurologico ha a disposizione differenti opzioni, dalla farmacoterapia alla terapia comportamentale, per esempio.
Neurologicamente, si ritiene che l’origine dei tic risieda in una disfunzione dei gangli della base, che sono strutture cerebrali cruciali nella regolazione dei movimenti volontari e nell’apprendimento delle abitudini. Anche in questo caso, sul banco degli imputati c’è la già conosciuta dopamina, chiamata in causa per “eccessiva attività”.
Quando non è una “cattiva abitudine”
Torniamo ora a Nadal, perché alcuni “rituali” – che, vale la pena ripeterlo, sono associati alla performance sportiva, perciò non indicativi di disturbi neurologici – possono avere somiglianza non soltanto con i tic, come visto, ma anche con i DOC, i Disturbi Ossessivo-Compulsivi, che è una condizione neuropsichiatrica caratterizzata da ossessioni (pensieri, immagini, impulsi ricorrenti…) e/o compulsioni (comportamenti ripetitivi in risposta a un’ossessione per prevenire o ridurre l’ansia o il timore di un evento).
Il DOC è l’estremo più grave dello spettro dei comportamenti ripetitivi, perché causano un disagio significativo e interferiscono con la vita quotidiana. Neurologicamente, nel DOC si ipotizza una disfunzione nella regolazione del CSTC, il cosiddetto circuito Cortico-Striatale-Talamo-Corticale, un “anello” che collega la corteccia prefrontale, lo striato e il talamo e che è ritenuto centrale nella patogenesi del DOC; in particolare, si ritiene che vi sia una difficoltà nell’inibire pensieri o azioni indesiderate, portando alla ripetizione di ossessioni e compulsioni. In termini più semplici, è come se il “freno” cerebrale non funzionasse correttamente, permettendo al “segnali di allarme” di continuare a suonare.
In definitiva, il DOC non è semplicemente una “cattiva abitudine” o un tratto caratteriale, ma una complessa condizione neurologica con radici profonde nelle disfunzioni dei circuiti cerebrali che regolano il pensiero, il movimento e l’emozione, per i quali – come per i tic – sono stati sviluppati trattamenti terapeutici e farmacologici più efficaci.
Basta un gesto ripetuto, un movimento stereotipato o un rituale “un po’ sopra le righe” per essere affetto da disturbi neurologici? Certamente no, e Nadal è la più affascinante dimostrazione. Peccato, tuttavia, che non basta neppure un rituale “un po’ sopra le righe” per diventare un campione. Per diventare Nadal, ci vuole Nadal.
Scritto con la collaborazione di Marzio De Marchi
Bibliografia
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