Studi recenti evidenziano che l’invecchiamento sano dipende in parte dalla motivazione, cioè dalla volontà e dalla capacità delle persone di mobilitare gli sforzi necessari per sostenere comportamenti che promuovono la salute e il benessere. Ne parliamo con la Dott.ssa Alessia Avietti, psicologa, esperta in coaching e formazione degli adulti, e con il Dott. Werner Natta, psichiatra e psicoterapeuta.

 

Che cos’è la motivazione e quale ruolo ha nella nostra vita?

AV: Con un esempio pratico la motivazione può essere descritta come lo stimolo che ci fa puntare la sveglia e ci fa alzare la mattina. Per dare una definizione un po’ più specifica, la motivazione è un insieme strutturato di esperienze individuali e soggettive che spiegano l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza del comportamento di una persona rispetto ad uno scopo.

L’intensità ha che fare con l’impegno. Avere una motivazione significa avere energia da spendere, tanto è vero che nella parola stessa “motivazione” c’è l’idea di un movimento: la motivazione è ciò che ci muove, in senso figurato ma anche in senso fisico. 

La persistenza ha a che fare con la costanza: riconosciamo la motivazione in una persona quando vediamo che persegue lo scopo con tenacia e perseveranza, anche di fronte a eventuali incidenti di percorso.

 

Una volta che la persona ha compreso quali sono i propri scopi, la motivazione a perseguirli nasce spontaneamente? O le cose sono più complesse? 

WN: Le cose sono decisamente più complesse. Definire i propri scopi non significa automaticamente essere motivati a raggiungerli. Dirò di più: a differenza dei desideri, gli scopi non sono sempre qualcosa di piacevole. La volontà di mantenere un peso corporeo adeguato, per esempio, comporta la rinuncia a tanti piaceri della vita in vista di uno scopo più alto, che è quello di stare bene. 

La motivazione quindi va costruita nel tempo, con impegno e sacrificio. La metodologia del coaching è efficace in questo senso. Prevede di stabilire degli obiettivi intermedi da conquistare step by step: l’obiettivo di “vivere bene fino a 100 anni” è fatto di tanti traguardi “più piccoli” che, una volta raggiunti, permettono di avvicinarsi a quello più importante. Quanto più gli obiettivi sono a lungo termine, tanto più richiedono investimento di energie, risorse e tempo, tanto più la motivazione va costruita. 

 

Come funziona esattamente il coaching?

AV: Chiariamo innanzitutto una cosa: il coaching è una metodologia trasversale a molte professioni. La motivazione è presente in ogni campo della nostra vita, quindi anche il coaching può essere applicato ad ambiti diversi: vita privata, lavoro, salute. In ambito sanitario può essere adoperato dallo psicologo, ma anche, per esempio, dal medico di famiglia, dall’infermiere o dal fisioterapista per supportare la motivazione dei pazienti rispetto allo scopo che li ha portati lì da loro. 

Il coaching parte dalla constatazione che le persone hanno degli obiettivi da raggiungere. Dove non c’è desiderio, oppure bisogno (quindi spinta) a cambiare qualcosa o a raggiungere un certo stato di cose, non può esserci coaching, ma solo prescrizione. 

Coach (il professionista) e coachee (la persona che porta all’attenzione del professionista uno specifico bisogno) individuano insieme le azioni intermedie da intraprendere per avvicinarsi sempre di più all’obiettivo prefissato e condiviso. Siamo nella condizione ideale del coaching quando la persona si pone questa domanda: “come faccio a…?”. Ad esempio: “come faccio a farmi venir voglia di camminare mezz’ora al giorno?; “come faccio ad arrivare a 70 anni senza avere problemi all’anca?”. 

L’importante è che ci sia un bisogno concreto, specifico, realistico e raggiungibile in un tempo definito. Il coaching non è una terapia esistenziale, non va nel profondo e non aspira a modificare la struttura della persona. Interviene solo sulle abitudini, i pregiudizi e i convincimenti che possono essere di ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo.

 

Il coaching è efficace anche “ad una certa età”?

AV: Sì, si può proporre a tutti. Trattandosi di una tecnica che prevede la messa in discussione di alcuni schemi di comportamento possono esserci delle difficoltà in più con le persone anziane, che di solito hanno abitudini consolidate, tendono a vedere meno opzioni possibili per sé, hanno più vincoli, e quindi possono percepire di avere meno risorse da dedicare al cambiamento. In questi casi il coaching è più difficile, ma non meno efficace: anzi, mostrare che le proprie difficoltà possono essere superate prendendo una via “laterale” che non era stata considerata prima, è molto efficace, perché produce un senso di potenza e di autodeterminazione che poi attiva risorse nuove. Infatti è abbastanza comune che di fronte al raggiungimento di un obiettivo anche minimo, la persona desideri proseguire.

 

Abbiamo detto che la motivazione ha a che fare con lo sforzo e la costanza. C’è il rischio di cadere nell’ipermotivazione, di mobilitare una quantità eccessiva di risorse ed energie nella realizzazione del proprio scopo? 

AV: Sicuramente sì. Sovraccaricarsi di aspettative troppo elevate, eccedere nell’investimento di energie e calibrare male il carico di sforzo da impegnare può avere un effetto controproducente per la motivazione stessa. Se l’obiettivo da raggiungere assume i connotati di un pensiero ossessivo, la persona ad un certo punto esaurisce le proprie risorse e l’eventualità più probabile è che si demotivi anziché motivarsi, che perda fiducia in se stessa e nell’intervento, perché non vede i frutti desiderati o perché si rende conto che il livello di prestazione richiesto è troppo alto. 

A volte l’eccesso di motivazione ci porta a cambiare in maniera repentina e drastica la nostra routine, per assumere comportamenti troppo diversi da quelli a cui siamo abituati. Non sempre è salutare seguire una dieta ferrea, non sempre è saggio smettere di fumare da un giorno all’altro, non sempre è giusto svolgere un certo tipo di attività fisica dopo essere stati sedentari per anni.

Per evitare questi esiti, il coaching prevede che lungo il percorso si effettuino dei check, che consentono di capire se la strada intrapresa è funzionale o se invece è il caso di apportare qualche aggiustamento. Quando viene a mancare un pensiero riflessivo rispetto ai comportamenti che sto attuando è il segnale che sta partendo un po’ il pilota automatico, che la motivazione si sta sganciando dallo scopo.

 

La motivazione condiziona anche le nostre strategie di prevenzione e il nostro futuro? Pensare positivo, immaginarsi un futuro radioso, ci dà più chance di raggiungere i nostri scopi?

WN: La motivazione è fondamentale nella prevenzione, sia primaria che secondaria. E nel mantenimento della motivazione conta anche l’immagine di sé. Spesso l’indicazione che il medico dà al paziente è di cambiare comportamenti e stili di vita per evitare determinati esiti (patologie o complicanze), ma se io immagino che a 80 anni potrò andare in montagna, a fare una gita o una passeggiata al parco con i miei nipoti, questa prospettiva mi dà una motivazione molto più forte a seguire le indicazioni del medico, rispetto a quella che può provenire dalla mera prescrizione. 

AV: Secondo la teoria classica, la motivazione si riduce al cercare ricompense o ad evitare punizioni. Nella teoria contemporanea della motivazione invece esiste un nuovo filone che si concentra su un altro elemento motivazionale: l’autodeterminazione. Le persone non sono motivate solo dalla volontà di ottenere premi ed evitare punizioni, ma anche dalla ricerca di quelle situazioni che permettono loro di scegliere per se stesse e autodeterminarsi. In questo senso, poter immaginare di avere un futuro positivo va a creare, di per sé, motivazione. 

 

A proposito dell’immagine di sé: sentirsi più giovani rispetto alla propria età anagrafica aiuta ad invecchiare meglio o può essere un’arma a doppio taglio?

WN: Avere un’immagine di sé nel futuro che si avvicina a quella che si ha da giovani può essere molto utile, perché stimola la persona ad attuare tutti quei comportamenti che le consentono di mantenere le caratteristiche di una persona più giovane. Le aspettative però devono essere realistiche: è vero che immaginarsi giovani anche quando si è avanti con gli anni è utile, ma nella consapevolezza che a 80 anni si possono mantenere alcune delle caratteristiche che si possiedono a 30 anni, non tutte.

 

Spesso la vecchiaia viene vista come qualcosa di negativo e triste. I pregiudizi legati all’invecchiamento possono minare la motivazione di una persona e ostacolare il raggiungimento dei suoi obiettivi? 

WN: I pregiudizi pesano molto. Non a caso un altro aspetto del coaching è il coinvolgimento della rete sociale in cui è inserita la persona. Un fattore che incide sul mantenimento della motivazione è quello di trovare nelle persone intorno a noi dei feedback, delle conferme su come sta andando il nostro percorso. Se il ritorno che ricevo da amici e parenti suona come un “beh, tanto gli anziani non combinano niente!”, diventa difficile darsi degli obiettivi e raggiungerli. 

Ma non bisogna dimenticare una cosa: l’allungamento dell’aspettativa di vita e il miglioramento della qualità della vita che abbiamo registrato negli ultimi tempi ci dimostrano che i pregiudizi sull’invecchiamento sono validi solo fino ad un certo punto e per un tempo limitato. La generazione precedente alla nostra immaginava la vecchiaia in un modo completamente diverso da come è stata poi nei fatti. Quindi il rischio è di trovarsi condizionati per lungo tempo da un pregiudizio che oltre ad essere discutibile di per sé (in quanto pregiudizio) è anche infondato. Per esempio, aspettarsi di ammalarsi di qualche malattia incurabile a 60 anni è diventato molto più raro, mentre è sempre più frequente aspettarsi di arrivare a 70-80 anni in buona salute.

 

Oltre alla prevenzione, esiste qualche altro legame tra motivazione e salute? Penso, per esempio, al tema della compliance.

WN: Sì, c’è tutto il tema dell’aderenza terapeutica. A volte noi medici trascuriamo il fatto che le cure possono diventare un peso per i pazienti. E invece nell’aiutare una persona ad affrontare i suoi problemi dobbiamo stare attenti a non crearne di nuovi. Se vogliamo che un paziente si attenga ad un certo tipo di alimentazione non possiamo proporgli una dieta difficile da capire e da seguire, altrimenti gli stiamo chiedendo di portare il peso delle cure oltre al peso della malattia. Il coaching può aiutarci a capire se stiamo aiutando quella persona a darsi degli obiettivi allineati ai suoi scopi, raggiungibili con uno sforzo tollerabile e proporzionato.

 

Lancio una provocazione: sapere che mangiare bene mi farà vivere meglio non è molto utile, se non posso permettermi alimenti di qualità. C’è il rischio che la motivazione (per esempio a condurre uno stile di vita sano) sia una categoria “escludente”, un’ambizione non alla portata di tutti?

WN: È una domanda molto interessante. In realtà non solo la motivazione, ma anche la salute stessa è una categoria escludente, poiché dipende sia dalle nostre risorse interne, sia da determinanti esterni. Un basso livello di istruzione, strutture abitative disagiate, un ridotto accesso ai servizi sanitari; tutto questo comporta un maggiore rischio di malattie che condizionano pesantemente la vita e che invece si potrebbero prevenire e curare disponendo di strumenti adeguati. Gli obiettivi che possiamo immaginare  per queste persone sono meno ambiziosi rispetto agli obiettivi di coloro che hanno maggiori risorse. 

Tuttavia, ciascuno di noi può avere accesso a strumenti e risorse per migliorare la propria situazione, indipendentemente dalle possibilità economiche e dalla condizione di salute. 

La mia esperienza mi dimostra che è sempre possibile darsi degli obiettivi e intervenire con successo, persino in presenza di problemi cognitivi importanti e complessi come la demenza. Ponendosi obiettivi circoscritti, una persona che sta affrontando una malattia o un percorso di cura può ottenere una qualità di vita molto più elevata di quanto ci si attenderebbe da un soggetto che sta affrontando quel problema senza un’ottica di coaching.

Nel momento in cui si imposta il percorso di coaching, infatti, si definiscono insieme al coachee le risorse e i limiti, prendendo in considerazione anche le eventuali difficoltà di natura economica o clinico-sanitaria e scegliendo strategie compatibili con tali limiti.

 

Per approfondire:

  • Thomas M Hess, PhD, Alexandra M Freund, PhD, Philippe N Tobler, PhD, Effort Mobilization and Healthy Aging, The Journals of Gerontology: Series B , Volume 76, Issue Supplement_2, ottobre 2021, pagine S135–S144, doi.org/10.1093/geronb/gbab030
  • Klaus Rothermund, PhD, Verena Klusmann, PhD, Hannes Zacher, PhD, Age Discrimination in the Context of Motivation and Healthy Aging, The Journals of Gerontology: Series B, Volume 76, Issue Supplement_2, October 2021, Pages S167–S180, doi.org/10.1093/geronb/gbab081

 

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