Suicidio medicalmente assistito: definizione e riferimenti normativi

Il suicidio medicalmente assistito rappresenta una delle questioni più complesse e delicate all’interno del dibattito contemporaneo sul fine vita. Attorno a questo tema si sviluppano riflessioni etiche, giuridiche, politiche e culturali cruciali, che riguardano la dignità della persona malata, il principio di autodeterminazione e il ruolo dello Stato nella regolamentazione delle scelte esistenziali più profonde.

Negli ultimi anni, il dibattito italiano sulla questione si è intensificato, producendo nuove proposte legislative, pronunciamenti giurisprudenziali e iniziative regionali che, se da un lato confermano l’urgenza di affrontare il tema in modo pubblico e sistematico, dall’altro mettono in luce l’assenza di un quadro normativo nazionale chiaro e condiviso. Per comprendere appieno il quadro normativo italiano, è prima necessario definire con precisione cosa si intende con suicidio medicalmente assistito, distinguendolo da altre pratiche di fine vita con cui spesso viene confuso, come l’eutanasia o il rifiuto dei trattamenti sanitari.

Nel suicidio medicalmente assistito, una persona capace di intendere e di volere riceve dal medico i mezzi necessari per porre autonomamente fine alla propria vita, attraverso la prescrizione del farmaco letale e le istruzioni per la sua assunzione. L’eutanasia è invece una pratica differente, perché in questo caso è il medico stesso che, su richiesta libera e consapevole del paziente, somministra il farmaco letale che ne causa la morte. Attualmente, in Italia, l’eutanasia è vietata per legge. Un’ulteriore pratica di fine vita che spesso viene confusa con le prime due è il rifiuto dei trattamenti sanitari. Esso è regolato dalla legge n. 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che sancisce il diritto all’autodeterminazione del paziente in ambito terapeutico. Il rifiuto può avvenire in due modalità: il paziente può sia rifiutare l’inizio di un trattamento proposto dal medico (withholding), sia interrompere un trattamento già in corso (withdrawing) ritirando il proprio consenso, anche se questa scelta comporta il rischio di morte per il paziente stesso. La legge prevede che, in questi casi, il medico non possa appellarsi a obiezione di coscienza e sia obbligato e rispettare entrambe le decisioni, che sono considerate eticamente e legalmente equivalenti. È importante sottolineare che si tratta di una rinuncia alle cure, in linea con l’art. 32 della Costituzione, e non di una richiesta di aiuto diretto a morire, come avviene per il suicidio medicalmente assistito o per l’eutanasia.

La svolta giuridica: DJ Fabo e la sentenza 242/2019

La legge 219/2017 proibiva il suicidio medicalmente assistito. Il percorso giuridico italiano ha però subito una significativa accelerazione a partire dalla vicenda di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo che, a seguito di un incidente stradale, era diventato cieco, tetraplegico e parzialmente dipendente da un sistema di sostegno vitale. Nel 2017 chiede a Marco Cappato, attivista dell’Associazione Luca Coscioni, di accompagnarlo in una clinica svizzera per accedere al suicidio assistito. Al rientro in Italia, Cappato si autodenuncia, rischiando una condanna dai 5 ai 12 anni di reclusione in base all’articolo 580 del Codice Penale, che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio.

Questa vicenda ha portato la Corte Costituzionale a pronunciarsi con la storica sentenza n. 242 del 2019, che ha segnato una svolta nel panorama normativo italiano. In quell’occasione, la Corte ha stabilito che l’aiuto al suicidio non è punibile quando sono presenti quattro condizioni:

  • la persona deve essere pienamente capace di intendere e di volere;
  • deve essere affetta da una patologia irreversibile;
  • deve trovarsi in una condizione di sofferenza fisica o psichica intollerabile;
  • deve essere mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Questa pronuncia ha segnato una svolta importante, ma non ha risolto le ambiguità normative. La Corte ha infatti sollecitato il legislatore a intervenire con una disciplina organica che desse certezza a pazienti, famiglie e operatori sanitari. Tuttavia, in assenza di una legge nazionale, sono emerse interpretazioni difformi da parte delle istituzioni competenti, generando così disuguaglianze nell’accesso al suicidio medicalmente assistito. Una delle questioni più dibattute riguarda la definizione di “trattamento di sostegno vitale”. Alcune interpretazioni, più restrittive, limitano tale concetto a dispositivi come i ventilatori meccanici, il cui distacco porta alla morte in tempi brevi. Altre interpretazioni, invece, adottano una visione più estensiva, includendo anche terapie farmacologiche o forme di assistenza continuativa, la cui sospensione può determinare il decesso anche a distanza di tempo.
Nel 2024, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul tema con la sentenza n. 135, restringendo la nozione di “trattamento di sostegno vitale” ai soli interventi terapeutici la cui interruzione comporta la morte in un breve lasso di tempo. Tale definizione include non solo dispositivi meccanici, come il respiratore, ma anche trattamenti farmacologici o assistenziali di carattere sanitario, come l’idratazione e la nutrizione artificiali. In questo senso, la Corte ha chiarito che il “breve lasso di tempo” in cui occorrerebbe il decesso non si limita a pochi minuti, ma può comprendere anche giorni o settimane. Ha infine ribadito che la dipendenza da tali trattamenti costituisce un requisito imprescindibile per accedere al suicidio medicalmente assistito.

Una risposta della Regione Toscana: la legge “Liberi Subito”

In assenza dell’intervento da parte del legislatore nazionale, alcune Regioni hanno cercato di colmare il vuoto normativo denunciato dalla Consulta. In particolare, nel febbraio 2025, la Regione Toscana ha approvato una legge regionale denominata “Liberi Subito”, nata da una proposta di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni. La norma mira a garantire certezza applicativa alla sentenza 242/2019, attraverso la definizione di procedure e tempi chiari per la verifica, da parte del Servizio Sanitario Regionale, della presenza dei requisiti necessari all’accesso al suicidio medicalmente assistito, nonché per la definizione delle relative modalità operative. La legge chiarisce inoltre la distinzione di ruoli tra la commissione medica e il comitato etico: a quest’ultimo spetta la valutazione della volontarietà e della durevolezza del proposito suicidario, nonché la verifica che al paziente sia stata offerta la possibilità di usufruire delle cure palliative. In questo modo, viene delineato un iter strutturato che tutela il diritto della persona malata ad autodeterminarsi, riduce ritardi e incertezze procedurali, e garantisce un supporto anche sotto il profilo etico, assicurando al contempo la possibilità di obiezione di coscienza per gli operatori sanitari. Tuttavia, il fatto che questa normativa sia applicabile esclusivamente a livello regionale ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale e preoccupazioni in merito alle disuguaglianze tra cittadini, in funzione del territorio di residenza. Il Governo ha impugnato la legge davanti alla Corte Costituzionale, aprendo un nuovo capitolo del contenzioso sul tema.

La proposta di legge del Governo

Nel luglio 2025, il Governo italiano ha finalmente presentato una proposta di legge nazionale sul suicidio medicalmente assistito. Il testo, tuttavia, ha sollevato numerose criticità. Tra gli aspetti più controversi vi è l’esclusione del Servizio Sanitario Nazionale dalla gestione delle procedure, affidando a soggetti terzi l’erogazione del servizio. Questa scelta solleva il rischio concreto di creare disuguaglianze nell’accesso, penalizzando i pazienti con minori risorse economiche o residenti in territori meno attrezzati. La proposta prevede inoltre l’istituzione di una commissione nazionale incaricata di valutare le singole richieste, scelta che rischia di compromettere l’approccio personalizzato necessario per valutare sia le condizioni cliniche sia la volontà del paziente. Sul piano tecnico, la proposta restringe ulteriormente la definizione di “trattamento di sostegno vitale” ai soli “sistemi sostitutivi delle funzioni vitali”, con l’effetto di escludere numerose situazioni di grave sofferenza che in precedenza erano state riconosciute come legittime per l’accesso alla procedura. Infine, il testo introduce l’obbligo di sottoporsi a cure palliative prima di poter accedere al suicidio medicalmente assistito, vincolo che ha sollevato forti critiche dalla comunità medico-scientifica. In particolare, la Società Italiana di Cure Palliative (SICP) ha evidenziato come questa misura possa limitare la libertà di scelta del paziente e snaturare la missione delle cure palliative stesse, che devono essere offerte, non imposte.
In risposta, la Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente con la sentenza n. 132, respingendo di fatto la proposta di legge nazionale in discussione e riaffermando i principi già stabiliti in precedenza. In particolare, la Corte ha riconosciuto che la persona che soddisfa tutte le condizioni indicate nella sentenza 242/2019 ha diritto a essere accompagnata dal Servizio Sanitario Nazionale nel percorso di suicidio medicalmente assistito. Questo diritto comprende non solo la verifica dei requisiti, ma anche il reperimento dei dispositivi necessari e il supporto all’esecuzione, il tutto svolto nell’ambito di un iter supervisionato dalla struttura pubblica e dal comitato etico territorialmente competente. Si tratta di una chiara riaffermazione del ruolo di garanzia del Servizio Sanitario Nazionale, concepito come presidio a tutela delle persone più fragili.

Conclusione

Il cammino normativo sul suicidio medicalmente assistito in Italia è ancora in fase di costruzione, tra spinte riformiste e resistenze culturali. Mentre alcune Regioni cercano di colmare il vuoto legislativo con iniziative locali, il dibattito nazionale resta aperto e complesso. La sfida maggiore è quella di coniugare il rispetto per la libertà individuale con la necessità di garantire un accesso equo e sicuro alle procedure su tutto il territorio nazionale. L’auspicio è che si arrivi presto a una legge organica, capace di offrire risposte chiare e uniformi, evitando le disparità e le incertezze che oggi pesano soprattutto sulle persone più vulnerabili e sulle loro famiglie. Servono regole chiare, non per incoraggiare una scelta, ma per garantire che chi la compie possa farlo nel rispetto della propria dignità.

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