Riportiamo di seguito una parte dell’intervento che il professor Fulvio Scaparro ha tenuto a Novara, Il 26 gennaio 2023, in occasione dell’evento del Progetto REACtion “Il welfare di comunità per contrastare solitudine e fragilità”

Fulvio Scaparro è psicologo e psicoterapeuta specializzato nell’età evolutiva, da sempre in prima linea per la tutela dei diritti dei bambini, ha dedicata molte attività anche alla condizione degli anziani. Vive e lavora a Milano, dove ha insegnato psicopedagogia e psicologia all’università. È fondatore e direttore scientifico dell’Associazione GeA Genitori Ancóra di Milano, un gruppo di lavoro che dal 1987 diffonde la teoria e la pratica della mediazione familiare nei conflitti famigliari. Ha recentemente pubblicato “Il senno di prima. Reimparare la vita dai bambini” (Salani editore, 2022), dedicato al rapporto tra le generazioni e, in particolare, a quello tra nonni e nipoti.

Ho superato gli 85 anni. Sono vivo e vegeto.

Questa per me sarebbe una buona notizia se usassi ‘vegeto’ come aggettivo con il significato di ‘rigoglioso’, ‘in pieno vigore’. Diventa al contrario una brutta notizia se uso ‘vegeto’ come indicativo presente del verbo ‘vegetare’ nel senso che le mie funzioni vitali sono appena sufficienti a sopravvivere.

Possiamo immaginare noi stessi come una livella a bolla vivente.

“Stare in bolla” o “essere in bolla” sono espressioni alquanto diffuse e si riferiscono a oggetti ben posizionati, a persone in buone condizioni psicofisiche o a situazioni che vanno per il verso giusto.

Queste espressioni provengono dall’uso della livella a bolla, quello strumento che avete forse visto utilizzare da muratori, falegnami e non solo, per verificare l’orizzontalità di un piano. Si tratta di una fiala di vetro montata su una struttura in legno o metallico. La fiala, in parte visibile all’esterno, contiene un liquido, alcol o etere solforico, con una bolla d’aria che si sposta verso l’uno o l’altro lato dello strumento in base al variare dell’inclinazione. Quando la bolla si dispone centrata rispetto alla graduazione incisa sulla parte superiore della fiala di vetro, l’orizzontalità del piano su cui è poggiato lo strumento è verificata.

In ogni organismo vivente, la bolla è in continua vibrazione ed è un compito arduo mantenerla più o meno in posizione centrale, sensibile com’è ad ogni variazione dell’ambiente interno ed esterno all’organismo vivente. Noi esseri umani non disponiamo di una finestrella graduata che rivela all’esterno ogni minimo movimento della bolla ma possiamo essere certi che essa non è mai immobile non fosse altro perché l’eventuale stato di quiete all’interno dell’organismo vivente e dell’ambiente in cui vive è solo apparente.

Tutto ciò che vive – un essere umano, un animale, una pianta – è delicato e ipersensibile a ogni minima variazione dell’ambiente interno ed esterno. Siamo consapevoli solo di una piccola parte delle continue variazioni, quelle più macroscopiche quelle che provocano vistosi spostamenti della bolla.  “Restare in bolla” non è facile e ancora più difficile è “tornare in bolla” dopo un episodio della vita quotidiana, come gli eventi dolorosi e traumatici, che ci portano “fuori bolla”.

Se la bolla non vibra significa che la vita ci ha abbandonati. Finché siamo vivi lottiamo in continuazione, con alterne fortune, per mantenere un minimo di equilibrio ed evitare di perdere il controllo del nostro corpo e della nostra mente.

Ogni essere vivente è fragile e caduco. Nasce, si sviluppa, decade e muore. Finché è in vita sperimenta la sua fragilità e mette a punto ogni misura per “restare in bolla” nei limiti del possibile, per compensare la sua fragilità e resistere alle sue conseguenze.

Aveva ragione il medico e anatomo-patologo Marie François Xavier Bichat quando, oltre due secoli fa, affermava: “La vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte”. Come ci conferma la psicologia dell’età evolutiva, tutto lascia pensare che non siamo nati per soffrire e semplicemente sopravvivere ma per vivere e sfuggire per quanto possibile al dolore.

Fin dalla nascita dimostriamo, sotto ogni aspetto, di essere dei resistenti. Resistenti contro la morte. La specie, per restare nella metafora della livella, ci segnala cosa è funzionale o disfunzionale rispetto all’imperativo di vivere contrastando sia la morte fisica sia il rischio di rinunciare alla lotta per vivere malgrado gli eventi traumatici ai quali andiamo incontro vivendo.

Oggi si parla di resilienza, io preferisco l’espressione forza d’animo, ma forse, alla luce di quanto ho appena scritto, il termine migliore è quello suggerito da Bichat: resistenza.

Questa ricerca di un equilibrio, di riferimenti stabili che lo favoriscano e la resistenza contro ogni forma di grave scompenso, è presente in ogni forma di vita e, nell’essere umano, con tutta evidenza fin dalla nascita. con modalità diverse fino al termine della vita.

Fragilità non è l’opposto di resistenza. La consapevolezza di essere fragili ci spinge a lottare per il nostro diritto non solo a sopravvivere ma a vivere una vita piena e, nei limiti del possibile, soddisfacente.

Della sapienza orientale ho conservato questi insegnamenti:

“Cos’è la flessibilità? E’ un giunco che si piega al vento, esso non si oppone né cede mai.”

(Lao Zi, Libro del Tao, IV-III sec. a.C.)

Limitandoci alla condizione degli anziani, è dato di esperienza quotidiana che la concezione dell’anziano come ‘vuoto a perdere’ sia il frutto di una cultura che considera la vita come una parabola che ha origine nel concepimento e nella nascita, ascende nell’infanzia e nell’adolescenza, raggiunge il culmine nell’età adulta, per poi declinare verso la vecchiaia.

La collocazione degli anziani nella parabola non appare invidiabile.

Immagine per immagine, preferisco quella di uno sterminato ponte ad arcate gettato tra chissà quali sponde di chissà quale fiume. La mia vita e quella dei miei simili non è che un’arcata visibile di quel ponte e poggia su due pilastri, la nascita e la morte. La mia arcata è preceduta da innumerevoli altre e seguita forse da infinite altre. Il ponte è un’immagine interessante: collega, unisce, armonizza, ma è anche uno dei primi obiettivi da distruggere per chi vuole, tagliando i ponti, infliggere un colpo mortale al nemico. Non resisto al gioco di parole: sarà pure una teoria campata in aria, ma sentirmi una campata mi aiuta a non tirare a campare, mi dà una grande responsabilità nei confronti delle arcate che mi hanno preceduto e che mi seguiranno. I due pilastri possono essere il fondamento etico che giustifica il rispetto non solo della mia campata ma dell’intero ponte.

Per lo più, bambini e ragazzi sono considerati non-ancora-adulti e quindi, nel migliore dei casi, si può investire su di loro non solo in affetto ma anche perché, per così dire, possono sempre migliorare man mano che si avvicinano al magico mondo dei “maturi”, degli adulti. I vecchi invece rientrano nella categoria dei “non-più”: non-più-giovani, non-più-lavoratori, non-più-freschi e scattanti e così via. Il rischio di emarginazione è altissimo e si capisce perché il timore di finire fuori dal grande giro dell’età adulta spinga non pochi anziani a barare vivendo in una sorta di surfing in cui ogni sforzo è indirizzato a restare sulla cresta dell’onda, costi quel che costi, pur di non apparire vecchi.

Non è, si badi bene, una questione – soltanto – di buonismo, di generico rispetto verso ogni essere vivente o di “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”. Si tratta invece di una concezione dell’esistenza come non limitata all’arco della nostra vita, ma saldata alle esperienze di quelle che ci hanno preceduto e che ci seguiranno, verso le quali abbiamo una grande responsabilità: non esistono fasi della vita inutili e indegne di essere vissute.

Prendiamo il caso dei nonni o degli zii desiderosi di occuparsi dei nipoti. Premetto che non è obbligatorio “sentirsi” nonni e tanto meno “fare i nonni” stando con i nipoti per venire incontro alle necessità dei loro genitori ed essere meglio accettati in casa. I vecchi hanno diritto a una vita completa e autonoma e se, quando è toccato a loro, sono stati genitori adeguati, non dovrebbero sentirsi in colpa se non hanno voglia di avere ancora bambini intorno. Può succedere e non mi sento di far loro la morale. Però, se un giorno decidono di stare accanto ai nipoti e lo fanno non per dovere ma per piacere, avranno in cambio un affetto che resisterà nel tempo, ben oltre la loro vita. E anche se, non avete figli e nipoti, vi auguro di entrare in contatto affettuoso con i bambini della vostra cerchia familiare o amicale, perché scoprirete il piacere di costruire ponti tra mondi lontani.

In ogni caso, se vogliamo stabilire un rapporto fertile con bambini e ragazzi cerchiamo di non diventare un vecchio così:

  • autoritario dominante, sicuro di sapere tutto alla perfezione, ansioso di imporsi sugli altri “per il loro bene”;

  • grillo parlante, procede per assiomi, agitatore del “dito didattico”, l’indice, ha sempre una spiegazione per tutto e guarda con compatimento dall’alto in basso l’abisso di ignoranza nel quale gli altri sono sprofondati. Usa quel poco che sa come arma contundente;

  • nostalgico intollerante, quello che “ai miei tempi…”, disprezza il presente e termina le rampogne con “dove andremo a finire?”;

  • vittima cosmica, piena di malanni spesso immaginari o ingigantiti, collezionista di ingiustizie, acrimonioso, invidioso della gioventù altrui, teso in ogni modo a richiamare l’attenzione sulla propria disgraziata condizione;

  • fanatico e aggressivo seguace di una fede religiosa o politica sostenute acriticamente dentro le quali vorrebbe rinchiudere i più giovani promettendo salvezza e sicurezza e impedendo loro la libera ricerca di una strada nel mondo.

Questo piccolo elenco l’ho stilato molti anni fa con l’amico e maestro Marcello Bernardi.

È sempre più raro trovare famiglie in cui convivano molte generazioni dai neonati ai nonni e perfino ai bisnonni e, di conseguenza, è sempre più frequente che gli anziani non muoiano nella loro casa.

Paolo Legrenzi ha scritto di recente un libro appassionante, Quando meno diventa più, che illustra gli effetti benefici della sottrazione in campo cognitivo ed economico, sostenendo che il nostro cervello predilige le addizioni ma dobbiamo abituarci a sottrarre conducendo un’esistenza frugale e sostenibile. Telmo Pievani, recensendo il volume, scrive tra l’altro che ci sono “sottrazioni volontarie, che nel caos delle nostre esistenze isolano i momenti salienti, preziose e rare epifanie di verità e di densità che rendono unica e irripetibile la vita. Poi ci sono le sottrazioni involontarie, quelle della vecchiaia, dei lutti crescenti, della comprensione che non abbiamo più molto tempo davanti e conviene dedicarsi a ciò che conta”.

L’incontro tra vecchi sanamente “sottrattivi” e bambini sanamente “additivi” funziona. Penso al mio vecchio sogno: generazioni diverse che non sono solo in vista l’una dell’altra, in contatto e talvolta in contrasto tra loro, ma che cercano e talvolta trovano un’occasione di comunicazione più intima, profonda, rispettando sé stesse e le altre, senza sovrapporsi, senza ostacolarsi, senza cambiare pelle, senza scimmiottare, senza perdere ciascuna la loro identità.

Fulvio Scaparro: Intervento al Convegno pubblico “Il welfare di comunità per contrastare solitudine e fragilità”, Novara, Castello Visconteo 26 gennaio 2023

A cura di Fulvio Scaparro

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