Chi ha letto Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder, romanzo in cui la storia di un’adolescente si alterna ad un trattato di storia della filosofia in chiave didattica, forse si ricorderà di un passaggio che l’autore usa per riassumere la sua personale definizione di filosofia:

“Un coniglio bianco viene estratto da un cilindro vuoto […] Sulla punta dei suoi peli nascono i bambini, ma invecchiando scivolano nella pelliccia del coniglio; alcuni si trovano a loro agio e non cercano più di risalire, mentre molti altri non stanno bene e cercano di arrampicarsi sui peli sottili. Questi saranno i filosofi”.

Con questa metafora Gaarder alludeva alla tendenza di molti adulti, eccetto i filosofi, ad abbandonare quella sorprendente curiosità, così tipica dell’infanzia, che spinge i bambini a rimanere in bilico sulla punta dei peli di quel “coniglio immaginario” che è la vita. Se i bambini sono disposti a sporgersi per scrutare tutto ciò che li circonda, gli adulti preferiscono piuttosto scivolare pigramente nel caldo e confortante nascondiglio della sua pelliccia.

Ma cosa c’entra questa allusione con l’invecchiamento? Essere curiosi e stimolare continuamente la propria attività mentale potrebbe rivelarsi una strategia vincente per mantenere in salute le nostre capacità cognitive e rimandare sempre di più la loro compromissione?

L’invecchiamento è un processo biologico complesso, caratterizzato dall’accumulo di danni a livello cellulare e molecolare. Da un punto di vista strutturale, nel sistema nervoso che invecchia si verificano un progressivo assottigliamento della corteccia cerebrale e un’alterazione delle connessioni tra i neuroni.  Se in un processo di invecchiamento normale questi fenomeni rimangono limitati, nelle malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer possono raggiungere livelli patologici, visibili anche agli esami radiologici, e compromettere notevolmente le funzioni cognitive.

La ricerca scientifica si sta indirizzando verso l’identificazione di fattori potenzialmente associati all’invecchiamento della mente o che potrebbero prevenirne o almeno rallentarne il decadimento. In particolare, già da qualche decennio è emerso il concetto di riserva cognitiva come valida strategia per contrastare il temuto peggioramento delle funzioni mentali più complesse, quali la memoria, l’attenzione, l’apprendimento o la pianificazione.

Qualche definizione può essere utile per fare chiarezza su un termine ancora piuttosto controverso. La riserva cognitiva può essere intesa, secondo un modello passivo, come la “quantità di danno cerebrale tollerabile prima che venga raggiunta una soglia patologica oltre cui il danno diventa manifesto; oppure come un processo attivo in cui il cervello tenta di ottimizzare le risorse che ha a disposizione per compensare un danno già presente o prevenirne uno potenziale. Si tratta di puntare sull’efficienza dell’attività neuronale e sulla resilienza del proprio cervello, ovvero la capacità di adattarsi a nuove e non sempre vantaggiose situazioni e attrezzarsi contro gli effetti di patologie neurologiche, così da rendere necessari danni più gravi prima che i sintomi diventino evidenti.

 

Dimmi che lavoro fai e ti dirò come invecchi

Un recente studio italiano, che ha coinvolto più di tremila soggetti con un’età media di 78 anni, ha tentato di valutare la relazione tra alcuni fattori determinanti per la riserva cognitiva e la transizione verso un invecchiamento cerebrale patologico caratterizzato da un decadimento cognitivo più marcato e accelerato. Sulla base della letteratura scientifica, il grado di educazione e il tipo di occupazione sono sembrati i fattori più interessanti da studiare per misurare la riserva cognitiva di un individuo.

Era noto già da tempo che un più alto livello di educazione riduce il rischio di sviluppare una demenza, ma curiosamente pare che anche l’occupazione svolga un ruolo non da poco contro il decadimento cognitivo. I ricercatori hanno sottoposto i partecipanti a sei test classici per una valutazione globale delle funzioni mentali (attenzione, memoria, riconoscimento di volti noti, abilità visuo-spaziali, ecc.) e, partendo dai punteggi, li hanno suddivisi in tre gruppi in base alla severità del decadimento cognitivo:

  • soggettivo, cioè con lievi difficoltà cognitive percepite esclusivamente dal soggetto stesso, senza una controparte oggettiva nei punteggi ottenuti ai test
  • lieve (MCI, o mild cognitive impairment)
  • severo, associato alla malattia di Alzheimer.

Hanno poi confrontato i tre gruppi a partire da una serie di caratteristiche cliniche, sociali e demografiche, tra cui l’educazione e l’occupazione, e hanno notato che i soggetti con decadimento cognitivo soggettivo svolgevano o avevano svolto in passato professioni che richiedevano un impegno mentale maggiore rispetto a coloro che presentavano MCI o una vera e propria demenza.

Il valore aggiunto di questo studio è stato quello di avere seguito nel tempo una fetta dei partecipanti, rivalutandoli con gli stessi test a distanza di uno, due o tre anni e classificandoli come resistenti, se la loro performance era inalterata, o in declino, se c’era stato un peggioramento. Anche in questo caso, l’occupazione svolta per gran parte della propria vita è risultata un fattore discriminante: la maggior parte di chi otteneva punteggi simili a quelli della prima valutazione aveva svolto una professione più complessa dal punto di vista cognitivo. Un altro aspetto a favore di questo studio è stata l’inclusione di pazienti con un profilo cognitivo ancora nella norma, quelli che presentano il cosiddetto decadimento cognitivo soggettivo. Questi soggetti rappresentano infatti un gruppo interessante nella progressione dalla condizione di salute mentale alla demenza perché, nonostante una performance cognitiva ancora nella norma, sono più a rischio di sviluppare demenza e rappresenterebbero dunque la migliore popolazione su cui agire in termini di prevenzione.

 

L’occupazione oltre la scrivania di un ufficio

Quando si parla di occupazione in realtà non ci si riferisce soltanto alla professione vera e propria, ma più in generale all’insieme di attività che stimolano le funzioni cognitive più complesse. In questo senso, anche un’attività di svago potrebbe essere considerata un’occupazione, se svolta con costanza e con una certa frequenza.

Da una meta-analisi del 2005 (una tecnica statistica che combina i dati di più studi relativi a uno stesso argomento ottenendo un unico risultato conclusivo) è emerso che una professione mentalmente più complessa riduce del 44% il rischio di decadimento cognitivo. Addirittura uno degli studi ha evidenziato che il ruolo manageriale, e quindi avere un certo numero di persone sotto la propria responsabilità, è un fattore protettivo indipendentemente dal tipo di lavoro. L’aspetto ancora più interessante però è stata la scoperta di un significativo effetto protettivo delle attività di svago, in grado di dimezzare il rischio di demenza anche considerando eventuali fattori confondenti come l’età, lo stato di salute fisica, l’educazione e l’occupazione. Gli amanti di rebus, parole crociate o giochi di società, ma in generale tutti coloro che hanno un hobby che comporti un minimo uso della mente, dal disegno alla lettura di un buon libro, saranno felici di sapere che il loro passatempo agisce come un vero toccasana per la mente, soprattutto alle soglie della terza età.

 

Pillole di svago

Alcuni autori si sono spinti oltre la semplice associazione tra attività di svago e ridotto rischio di demenza rilevando un vero e proprio effetto dose-risposta. In un interessante studio pubblicato già negli anni Novanta, si è visto che il rischio di demenza si riduceva circa del 20%, del 60% e dell’80%, rispettivamente, a seconda che i soggetti svolgessero una, due o tre attività di svago abituali. In questo senso si potrebbe considerare un semplice hobby come un trattamento neuroprotettivo, una sorta di pillola piacevolmente priva di effetti collaterali da assumere periodicamente, purché stimoli le nostre funzioni cognitive a rimanere attive e sempre in esercizio.

 

I meccanismi alla base di questa relazione

Dietro questa relazione pare vi siano delle alterazioni strutturali, biochimiche e funzionali a livello cerebrale in risposta a stimoli esterni, che aumentano la complessità della situazione che si sta vivendo, inducendo la mente a reagire.

In uno studio su un gruppo di soggetti sani con più di 60 anni, cinque settimane di esercizi per la memoria sono bastate a fare aumentare i livelli di creatina, una proteina necessaria per il metabolismo energetico dei neuroni, e di colina, un componente essenziale delle membrane cellulari, nell’ippocampo e nel lobo temporale mediale, le aree del cervello dedicate alla memoria. Non a caso, è proprio questa regione ad essere tra le più colpite nella malattia di Alzheimer. L’aumento di questi neurometaboliti dopo un periodo di esercizio mnemonico intensivo potrebbe essere spiegato da un’aumentata attività neuronale, dimostrata da un maggiore ricircolo delle membrane e un maggiore consumo di energia. Allo stesso modo, studi su animali hanno evidenziato una riorganizzazione delle connessioni neuronali, un aumento della ramificazione dei neuroni e addirittura della loro programmazione genetica. Secondo alcuni autori, questa plasticità potrebbe tamponare, o perlomeno ritardare, gli effetti più o meno patologici della neurodegenerazione e compensare quelli che si sono già verificati.

 

Non è mai troppo tardi

Un altro aspetto interessante è il fatto che, mentre l’educazione è un processo che si sviluppa soprattutto nelle prime fasi della vita, l’occupazione può essere vista come un’attività che si svolge prevalentemente nell’età adulta e che può continuare anche durante la vecchiaia, magari non come professione vera e propria ma come modalità di impiegare il proprio tempo. La riserva cognitiva non è infatti una proprietà statica del sistema nervoso e la sua costruzione tramite l’apprendimento non si limita ai banchi di scuola. Essa deve essere intesa come un processo costantemente in divenire, sostenuto anche dalla plasticità delle sinapsi, i “ponti funzionali” tra i neuroni, che sono in grado di generarsi e scomparire per essere sostituiti da nuove connessioni (un processo chiamato “potatura”) adattandosi alle esperienze quotidiane. Sebbene l’apice della plasticità sinaptica venga raggiunto intorno ai vent’anni, con il completamento del neurosviluppo e il raggiungimento della maturità cognitiva, questa proprietà, che rende le nostre reti neurali così versatili, viene conservata in parte anche in età avanzata.

Non si è mai abbastanza vecchi per imparare qualcosa di nuovo. Se ciò ci protegge anche dal temuto decadimento cognitivo, tanto vale mantenersi mentalmente attivi e aggrapparsi con forza ai peli del coniglio bianco per evitare di perdere interesse in ciò che ci circonda e cercando di arrampicarsi fino in cima, mantenendo la propria curiosità in costante esercizio.

 

Fonti

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Mondini, S., Pucci, V., Montemurro, S. and Rumiati, R. I., Protective Factors for Subjective Cognitive Decline Individuals: Trajectories and Changes in a Longitudinal Study with Italian Elderly, European Journal of Neurology, December 5, 2021. DOI: 10.1111/ene.15183

Stern, Y., Gurland, B., Tatemichi, T. K., Tang, M. X., Wilder, D. and Mayeux, R., Influence of Education and Occupation on the Incidence of Alzheimer’s Disease, JAMA: The Journal of the American Medical Association, vol. 271, no. 13, pp. 1004–10, April 6, 1994. DOI: 10.1001/jama.1994.03510370056032

Valenzuela, M. J., Jones, M., Caroline Rae, W. W., Graham, S., Shnier, R. and Sachdev, P., Memory Training Alters Hippocampal Neurochemistry in Healthy Elderly, Neuroreport, vol. 14, no. 10, pp. 1333–37, July 18, 2003. DOI: 10.1097/01.WNR.0000077548.91466.05

Valenzuela, M. J. and Sachdev, P., Brain Reserve and Dementia: A Systematic Review, Psychological Medicine, vol. 36, no. 4, pp. 441–54, 2006. DOI: 10.1017/S0033291705006264

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