Un pianoforte avvolto a spirale su se stesso, racchiuso in una conchiglia tanto piccola da essere contenuta in una stanza di un centimetro quadrato. Al posto dei tasti, lunghe ciglia che ondeggiano ritmicamente seguendo lo spostamento del fluido che le circonda. Il pianista è un’onda, il cui movimento fa spostare le ciglia in un punto preciso del pianoforte, quello che deve essere suonato. Non è un quadro surrealista, ma il nostro orecchio interno, un piccolo miracolo di fisica e anatomia che permette di trasformare uno stimolo sonoro in un suono, e forse molto di più. Almeno fino a che non smette di funzionare.

Molto più comune rispetto alla perdita di altri sensi come l’olfatto e sicuramente con un maggiore impatto sociale (si pensi ai numerosi annunci pubblicitari di dispositivi acustici) è la riduzione dell’udito (ipoacusia) legata all’età, nota anche come presbiacusia (dal greco presbys – “anziano” – e akousis – “udire”). Si stima che la presbiacusia interessi più della metà degli anziani entro i 75 anni e che, sorprendentemente, la sua prevalenza raddoppi ogni 10 anni già a partire dalla seconda decade di vita, un dato che indica che questo problema non riguarda esclusivamente gli anziani, ma può insorgere piuttosto precocemente.

 

Le cause dell’ipoacusia

I fattori di rischio della perdita di udito si possono suddividere in quattro grandi categorie.

  1. Invecchiamento naturale del sistema uditivo, in particolare della coclea, quel minuscolo organo a forma di chiocciola situato nell’orecchio interno che racchiude in sé il pianoforte dell’udito descritto all’inizio (per chi volesse approfondire e se la cava con la lingua inglese, suggeriamo questo bellissimo video esplicativo del funzionamento del sistema uditivo).
  2. Predisposizione genetica: ad esempio, il sesso maschile aumenta il rischio, mentre l’etnia africana sembra ridurlo, forse grazie a un più alto contenuto nella coclea di melanina, il pigmento che scurisce la pelle e che funzionerebbe come antiossidante. Inoltre, studi su coppie di gemelli hanno evidenziato come i geni abbiano un impatto non indifferente sulla probabilità di sviluppare la presbiacusia, soprattutto quelli legati alla protezione dai radicali liberi o al danno ossidativo.
  3. Fattori ambientali: farmaci ototossici, come alcuni antibiotici, esposizione costante a suoni molto intensi, solitamente associata all’occupazione svolta, infezioni ricorrenti all’orecchio;
  4. Malattie concomitanti e stile di vita: l’ipertensione e il diabete possono compromettere l’irrorazione delle strutture dell’orecchio e alterarne il corretto funzionamento, mentre il fumo di sigaretta contribuisce a danneggiare le ciglia delle cellule della coclea chiamate, non a caso, “capellute”, il cui movimento ondeggiante è fondamentale per la percezione del suono.

 

Questione di frequenza

Nella sua forma più comune, la presbiacusia coinvolge entrambi gli orecchi ed è di tipo neurosensoriale, cioè deriva da una compromissione della capacità di trasformare il suono in un segnale che possa raggiungere la corteccia uditiva del cervello. Una sua caratteristica tipica è il fatto che il soggetto in realtà riesce a percepire il suono, ma non riesce a capire e distinguere le parole pronunciate (della serie: “Ti sento ma non ti capisco”). Si tratterebbe quindi di un’alterazione dell’udito più che di una mera riduzione di questo senso. Per i non addetti ai lavori, la frequenza tipica delle onde sonore del linguaggio parlato varia da 500 a 4000 Hertz.

La riduzione dell’udito inizialmente interessa le frequenze sonore più alte, di solito oltre i 2000 Hertz, che sono però proprio quelle che permettono di capire le consonanti. Si può quindi facilmente immaginare come la comprensione delle parole possa essere completamente alterata. I rumori di sottofondo non fanno altro che portare all’estremo questa difficoltà così che, se la comunicazione faccia a faccia in una stanza tranquilla può non essere ancora un problema, in ambienti affollati e rumorosi lo è eccome, un fenomeno noto come “effetto cocktail party”. In seguito, la ridotta percezione dei suoni può peggiorare e interessare anche le frequenze intermedie (500-2000 Hertz), tipiche del linguaggio parlato, o quelle più basse (< 500 Hertz), fondamentali per apprezzare la buona musica.

 

A ciascuno la propria ipoacusia

Se la compromissione dell’udito è dovuta a fattori ambientali o a malattie, uno degli aspetti più interessanti è il fatto che il tipo di ipoacusia dipende spesso dalle caratteristiche del suono che l’ha causata. Per esempio, se un soggetto ha lavorato per anni in una fabbrica particolarmente rumorosa, dove i suoni prodotti sono di solito ad alta frequenza, probabilmente con il tempo percepirà meno proprio i suoni ad alta frequenza, conservando invece un udito migliore per suoni a frequenze più basse. Al contrario, i fattori di rischio cardiovascolari come l’ipertensione o il diabete sembrano coinvolgere sia le frequenze basse che quelle alte, con una “finestra di benessere” nel mezzo.

 

Da dove vengono i suoni?

Per chiudere in bellezza questa serie di fastidiosi disturbi, alla riduzione dell’udito si aggiunge spesso una paradossale ipersensibilità ai suoni più intensi e il tinnito, quella strana percezione di un sibilo acuto e persistente, che ci porta a dire “Mi fischiano le orecchie”. Si potrebbe arrivare a dire che i suoni non esistono in assenza di un sistema ben funzionante che permette di percepirli. Allo stesso modo, suoni inesistenti possono essere un puro frutto della nostra mente.

Come avviene per tutti gli altri sensi, infatti, la stimolazione dei recettori periferici (la coclea nell’orecchio, la retina nell’occhio, i neuroni olfattivi nel naso) non è che l’inizio di una ben più complessa elaborazione che farebbe invidia a qualsiasi computer e raggiunge il suo apice di funzionalità a livello cerebrale. Nel pianoforte immaginario racchiuso nella coclea, un determinato stimolo sonoro, per essere udito, deve stimolare una determinata cellula, che a sua volta deve essere in grado di trasformare lo stimolo in un impulso elettrico capace di viaggiare verso l’alto fino alla corteccia uditiva, nel lobo temporale del cervello. È sufficiente che la cellula sia danneggiata, ed ecco che lo stesso stimolo non viene più percepito o viene percepito in maniera distorta. Viceversa, la cellula malata potrebbe iniziare a tradurre segnali anche se questi non esistono, generando quindi la percezione di un suono anche in sua assenza, il tinnito appunto. Il suono, e in generale tutto ciò che percepiamo, non è altro che il prodotto della nostra personale elaborazione di uno stimolo iniziale, che può variare in base allo stato di salute del nostro orecchio.

 

Sentire il campanello…di allarme!

Nel 2017 una commissione dell’importante rivista scientifica Lancet ha annoverato la riduzione dell’udito tra i nove fattori di rischio potenzialmente modificabili di demenza. Si apre qui un dibattito spinoso tanto quanto quello dell’uovo e della gallina. Non è chiaro infatti se l’ipoacusia sia effettivamente una delle possibili cause di demenza oppure una sua conseguenza e soprattutto se possa essere un’utile sentinella di allarme per il futuro sviluppo di un decadimento cognitivo. Va riconosciuto che il lobo temporale anteriore, proprio quello dove si trova l’area uditiva, è tra le prime zone della corteccia cerebrale ad essere colpite nella malattia di Alzheimer, ma spingersi a fare affermazioni definitive sul ruolo della compromissione dell’udito nella demenza è ancora troppo prematuro. Certamente l’impatto dell’ipoacusia sulla qualità di vita è notevole e può contribuire ad accelerare il decadimento fisico e mentale in un soggetto fragile che presenta già segni di decadimento cognitivo. L’isolamento sociale che deriva dal sentirci poco e male potrebbe rendere più difficile rimanere stimolati intellettualmente, un fattore ormai riconosciuto come di primaria importanza nella prevenzione della demenza.

La risposta è ancora lontana ma alcune ricerche stanno andando nella giusta direzione per trovarla. Ad esempio, uno studio dell’Istituto Nazionale sull’Invecchiamento dell’università americana John Hopkins sta tentando di capire se intervenire sulla riduzione dell’udito con dispositivi acustici possa ridurre il rischio di sviluppare un decadimento cognitivo nell’anziano. Quasi 1000 soggetti anziani con ipoacusia sono stati suddivisi in due gruppi di intervento (protesi acustiche o sessioni educative su un corretto stile di vita) e seguiti per tre anni valutando le loro funzioni cognitive. I risultati, attesi nel 2023, potranno fare luce su questa controversa questione.

 

Parla più forte!

L’impatto della riduzione dell’udito sulla qualità di vita dell’anziano è piuttosto significativo. Sentire meno o non comprendere ciò che gli altri dicono tende a isolare la persona in una sorta di bolla, riduce l’autostima e può generare un senso di esclusione o addirittura depressione. Le interazioni sociali sono compromesse e se all’inizio parenti e amici lasciano correre, con il passare del tempo possono dimostrare insofferenza verso qualcuno che continua a chiedere di ripetere o che “capisce Roma per toma”.

D’altra parte, ammettere la propria difficoltà può non essere semplice e molti anziani sono infatti restii a sottoporsi a una visita audiologica e ad accettare delle protesi acustiche, spesso fingendo che vada tutto bene o incolpando l’interlocutore di parlare troppo piano o di mangiarsi le parole. I familiari e il medico di base possono dare un primo aiuto in questi casi, riconoscendo il problema e suggerendo all’anziano di fare qualche approfondimento. La scelta della protesi acustica più appropriata è infatti fondamentale, anche perché non vale la regola “una per tutti”: l’apparecchio acustico deve adattarsi all’orecchio del paziente, al tipo di presbiacusia (riduzioni uditive diverse richiedono programmazioni diverse della protesi) e anche ad alcune personali remore estetiche, soprattutto nelle signore. Fortunatamente, dalle prime trombette acustiche del XVIII secolo è stata fatta molta strada e adesso esistono numerose tipologie di protesi.

In pratica, gli apparecchi acustici sono costituiti da un microfono che rileva i suoni circostanti, poi elaborati da un mini-computer (chip) che filtra selettivamente i suoni più rilevanti e alle frequenze utili per il paziente. Questi sono poi inviati a un amplificatore, che aumenta il volume del suono ricevuto e lo trasmette a un ricevitore inserito nel condotto uditivo, che, a sua volta, lo invia all’orecchio interno. Gli apparecchi acustici più moderni sono perfino in grado di adattarsi a diversi ambienti a seconda delle proprie esigenze, permettendo di gustare un concerto da camera o di godersi una serata all’interno di una compagnia rumorosa con la stessa semplicità di un cambiamento di canale con il telecomando.

Tutto questo è racchiuso in un piccolissimo dispositivo quasi invisibile se ben nascosto nel padiglione auricolare o da una nuova acconciatura. Perché allora non approfittarne (taglio di capelli incluso)? Ne deriverebbe certamente un vantaggio in termini di qualità di vita, interazioni sociali e autostima.

Bibliografia

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