Nel suo trattato “Comporre una vita”, la scrittrice Mary Catherine Bateson indica la vecchiaia non come ciò che resta di un percorso ormai concluso, ma come una nuova fase in cui il passato dà significato al presente e deve essere reinterpretato per investire nel proprio futuro. Invece di considerare ciò che non siamo più, si deve porre l’accento su ciò che possiamo ancora essere e costruire al meglio la nostra vecchiaia, che sarà diversa da ciò che abbiamo già vissuto ma non per questo con meno valore. Questa interpretazione esprime bene quanto delicato possa essere il passaggio alla terza età e come le esperienze e i ruoli della fase precedente possano influenzare il modo in cui una persona anziana vivrà la propria vecchiaia. Non è forse un caso, quindi, che il vissuto dell’età anziana sia piuttosto diverso se il protagonista è un uomo o una donna: il bagaglio di esperienze sociali e psicologiche con cui lui o lei si presentano alla soglia della terza età è sicuramente genere-specifico.

L’avvento della medicina di genere ha permesso di portare alla luce numerose differenze biologiche nel modo di invecchiare, differenze che spesso sono passate in sordina, anche perché la maggior parte degli studi clinici sono stati effettuati su soggetti maschi, perdendo l’opportunità di rilevare le sottili ma importanti specificità fisiologiche dell’ uomo e della donna.

Il paradosso è che le donne, pur essendo in media più longeve, sembrano invecchiare peggio. A livello globale, la differenza tra uomini e donne in termini di aspettativa di vita è di circa 4 anni ed è più marcata nei paesi più sviluppati, ma gli indicatori di benessere personale risultano peggiori per le donne. La domanda allora sorge spontanea: se le donne sono più fragili, come fanno a vivere di più? È proprio questo il punto: non si tratta solo di quanto si vive ma anche di come si vive, tanto è vero che è stato proposto di usare come indicatore epidemiologico non tanto l’aspettativa di vita quanto l’”aspettativa di vita con disabilità” per tenere conto anche degli aspetti relativi alla qualità della vita oltre che alla sua durata.

La letteratura scientifica cerca di spiegare questo interessante paradosso con alcune ipotesi:

  1. le donne sono più resilienti, cioè più capaci di adattarsi e di reagire ai cambiamenti;
  2. le patologie correlate all’età sono diverse per gli uomini e le donne: mentre gli uomini sono più colpiti da patologie cardiovascolari e tumori, ai primi posti nella classifica delle cause di morte, le malattie croniche e debilitanti ma non mortali, come l’artrite-artrosi o l’osteoporosi, sono appannaggio più frequente delle donne;
  3. le donne tendono a prestare maggiore attenzione alla propria salute, un fenomeno che se da un lato contribuisce a una migliore prevenzione e aderenza ai consigli medici, dall’altro le può portare a vivere le proprie malattie con maggiore preoccupazione, ad aumentare la frequenza delle visite mediche e l’uso di farmaci;
  4. la demenza è più frequente nelle donne, probabilmente a causa della loro maggiore longevità, dato che il rischio di decadimento cognitivo aumenta con l’età.

Ma oltre al “gender gap” nelle patologie croniche tipiche dell’invecchiamento, possiamo rilevare una differenza anche nei fattori sociali che influenzano l’invecchiamento di uomini e donne e nel modo in cui i due generi vivono soggettivamente la propria vecchiaia.

Visione dall’esterno: il ruolo dei fattori sociali 

Non ci si stancherà mai di ricordare che il concetto di salute, così come proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, non si riferisce a uno stato di benessere esclusivamente fisico ma anche psicologico e sociale. Anche durante la vecchiaia il grado di benessere non dipende solo dal numero di “acciacchi” e dalle malattie ma è influenzato in modo significativo da componenti psicologiche e socio-ambientali: la solitudine, l’isolamento, le opportunità offerte dalla società, la visione personale, fatta di credenze e di aspettative, della vecchiaia.

Educazione e reddito sono tra i fattori che più impattano sul benessere personale di una persona, perché permettono di godere di più opportunità e di avere risorse a disposizione per migliorare la propria qualità di vita. La situazione sta notevolmente cambiando, soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, ma fino a non molto tempo fa le donne avevano un livello di educazione inferiore rispetto agli uomini e purtroppo questa discrepanza persiste ancora oggi in alcune società meno sviluppate. Anche nel campo lavorativo le cose sono cambiate in meglio e oggi la percentuale di donne che accede al mondo del lavoro spesso, raggiungendo posizioni di responsabilità, è notevolmente aumentata. Ciononostante, le donne sono sovrastate da un “soffitto di vetro”, una metafora per spiegare le barriere sociali che hanno ancora un impatto non indifferente sul ruolo della donna nella società, anche in quelle più moderne. Il risultato è che la percentuale di donne nella forza lavoro è più bassa rispetto agli uomini, le donne lavorano per meno anni e spesso con stipendi più bassi a parità di ruolo. In media anche le loro pensioni sono più basse, determinando una differenza di genere socio-economica che può andare ad influenzare la possibilità di vivere al meglio la propria vecchiaia.

Al di là del significato socio-culturale del grado di educazione e di benessere economico, questi due fattori sembrano intervenire direttamente sul benessere fisico di ciascuno, a riprova del fatto che la salute deve essere intesa a tutto tondo. Uno studio epidemiologico di Ross e Wu ha dimostrato che l’educazione influenza positivamente la salute fisica, sia direttamente che indirettamente. Alla stessa conclusione è giunto uno studio israeliano, sostenendo che l’educazione non è solo uno strumento per avanzare nella propria scalata sociale ma anche una risorsa per gestire al meglio i problemi di salute. Permette infatti di mantenere la propria mente in costante allenamento e insegna ad usarla al meglio. Chi ha una migliore educazione conosce di più, si informa di più ed è quindi più preparato ad affrontare gli inconvenienti della vita, incluse le malattie che insorgono invecchiando. Sulla stessa linea vi è lo studio di Adjei, che sottolinea come i principali fattori che contribuiscono all’uguaglianza di genere e allo stato di salute negli anziani sono proprio il livello di istruzione e uno stile di vita attivo.

In questo senso va intesa la differenza sociale che porta le donne a trovarsi in una situazione di svantaggio. Se da giovani può essere smorzata, nella terza età questa discrepanza inizia a farsi sentire, soprattutto se la donna si ritrova a trascorrere la propria vecchiaia da sola, una condizione comune dato che le donne sopravvivono al proprio coniuge più frequentemente degli uomini. Sono state proposte due ipotesi relative alle differenze di genere nella terza età. La prima è la teoria della convergenza, che sostiene che durante la vecchiaia esiste una tendenza all’androginizzazione della figura femminile, che riduce le disuguaglianze su un piano sociale. Secondo questa idea, la senescenza è un periodo di grandi cambiamenti, non solo fisici ma anche psicologici e, si potrebbe dire, sociali. Cambia infatti il ruolo che l’uomo e la donna hanno nella società. Per gli uomini in particolare, non ci si aspetta più che continuino a lavorare e arriva il momento dell’orologio d’oro del pensionamento. In questo scenario, non sono più pressati dalla competizione lavorativa e possono dedicare più tempo alla famiglia e alla casa. Anche la donna conclude la propria vita lavorativa, ma soprattutto termina l’età della fertilità e del suo ruolo come madre che alleva i figli piccoli, così che durante la vecchiaia assume tratti più “maschili”. Sempre secondo la teoria della convergenza, la posizione di svantaggio sociale che la donna ha subito per una vita l’ha resa più preparata e capace di adattarsi alla vecchiaia. In altre parole, quelli che nell’età precedente erano punti di debolezza, diventano punti di forza, rendendo più sottile il divario tra uomo e donna. Ma è proprio così?

In realtà, sembra che anche nell’età anziana permanga una netta divisione dei compiti: sono più spesso le donne a continuare a occuparsi della casa e a rimanere nello spazio privato della famiglia anche nelle attività pratiche di tutti i giorni (cucinare, pulire, prendersi cura dei nipoti), mentre pare che gli uomini siano più proiettati verso l’esterno. Anche se non lavorano più, sono loro di solito a occuparsi del conto in banca, della manutenzione dell’auto, o dei rapporti con il condominio per chi coabita con altre famiglie. Il risultato è una maggiore tendenza all’isolamento sociale per le donne. Secondo l’ISTAT, gli uomini hanno più tempo libero a disposizione rispetto alle donne dopo il pensionamento, messo alla prova solo se perdono la propria compagna di vita, dato che a quel punto devono iniziare ad occuparsi in prima persona dei lavori domestici. Le donne, invece, pur essendo ufficialmente pensionate, in pensione non vanno mai veramente e spesso ci si aspetta che siano contemporaneamente madri, mogli, nonne e figlie che si prendono cura dei propri ancora più anziani genitori, quando ancora viventi. Il ruolo della donna come “colei che accudisce” non sembra una prerogativa dell’età giovane-adulta, ma continua anche nella terza età. I dati americani stimano che le donne rappresentano ben il 70% dei caregiver, cioè di coloro che si prendono cura di un’altra persona, quasi sempre un familiare, spesso il proprio coniuge. Questa responsabilità può avere un impatto negativo sulla vita sociale della donna ed esporla a uno stress fisico e mentale che la porta a essere più fragile. È quello che propone la teoria della divergenza, secondo cui cui le differenze tra uomo e donna che caratterizzano tutta l’età adulta e che pongono la donna in un relativo stato di svantaggio permangono e si acuiscono durante l’invecchiamento, quando i nodi del diverso livello di educazione e di status socio-economico vengono al pettine.

Visione dall’interno: io sto cambiando 

Adesso però cambiamo prospettiva: come invecchiano uomini e donne dal punto di vista interno del benessere soggettivo. Per benessere soggettivo si intende la percezione di soddisfazione per la propria vita in generale, associata a emozioni positive di felicità. Viene valutato attraverso misure quali la valutazione soggettiva della salute, la soddisfazione per la vita, il valore attribuito alla propria vita, la felicità e la voglia di vivere, oltre all’assenza di depressione, ansia e solitudine.

Il benessere soggettivo è correlato allo stato di salute, ma non solo nella direzione più ovvia – se sono oggettivamente in salute, mi sentirò bene anche da un punto di vista soggettivo. La correlazione funziona anche al contrario: la percezione di benessere soggettivo migliora lo stato di salute fisica e funzionale. Quali differenze ci sono nel benessere soggettivo, dunque, per uomini e donne che invecchiano? In molti studi la valutazione del benessere soggettivo è più bassa per le donne che per gli uomini: meno soddisfatte, meno felici, con meno voglia di vivere. Anche la salute mentale è peggiore: le donne si dichiarano più irritabili, più preoccupate, più ansiose, più stressate e depresse. Molti studi hanno anche dimostrato che le donne ottengono punteggi inferiori rispetto agli uomini per quanto riguarda gli indicatori psicologici del benessere e delle risorse di coping, come l’autostima e l’autoefficacia.

Queste differenze non sembrano essere correlate solo alla disabilità o a uno stato di salute peggiore. Anche in questo caso c’è lo zampino dei determinanti socio-economici delle disuguaglianze di genere che vanno a braccetto con credenze e stereotipi sulla vecchiaia declinata al femminile e al maschile.
La percezione del proprio invecchiamento è diversa per uomini e donne e ancora una volta i diversi ruoli sociali hanno sicuramente un’influenza. Per esempio, sembra che la perdita del senso di controllo sulla propria quotidianità abbia un impatto maggiore sul grado di soddisfazione personale nell’uomo più che nella donna. Non a caso, il ruolo sociale maschile è tradizionalmente quello di capofamiglia, responsabile della stabilità economica di se stesso e dei propri cari, un ruolo di dominanza, non necessariamente nel senso negativo del termine, ma comunque una forma di espressione della propria virilità. Nel momento in cui la fragilità fisica inizia a compromettere l’autosufficienza, l’uomo può sentirsi impotente, mortificato, non più capace di “avere in pugno” la situazione.

Il momento del pensionamento rappresenta un altro cambiamento radicale per l’uomo, nella cui vita il lavoro riveste un ruolo centrale. Se per molti uomini la pensione rappresenta un’opportunità per lasciarsi finalmente alle spalle una routine faticosa o noiosa, d’altra parte il passaggio repentino dall’attività lavorativa a un’inattività forzata può essere vissuto male da alcuni. I dati ISTAT confermano che la depressione negli anziani è più comune tra gli uomini, probabilmente perché in alcuni casi l’uomo in pensione non riesce ad adattarsi a una nuova esistenza priva dell’occupazione di una vita né a dare un senso nuovo alla propria quotidianità. Forse anche in questo caso la colpa è un po’ della mentalità del nostro tempo, almeno nelle società industrializzate, in cui aleggia lo stereotipo dell’uomo anziano improduttivo, un “homo non faber”, non più protagonista, che deve essere mantenuto da chi è ancora nella forza lavoro.

Nella donna, invece, un fattore da non trascurare è l’autostima. Lasciata alle spalle l’età fertile già da qualche anno, la fase di post-menopausa nella nostra cultura accentua ulteriormente quella distanza dall’idea di “corpo desiderabile ed attraente” che (purtroppo) ha rappresentato l’ideale per gran parte della vita di una donna oggi in età avanzata: gli stereotipi ageisti e di genere, spesso impliciti e interiorizzati, si sommano e possono contribuire a ridurre l’autostima.

Molto sta cambiando però sia da un punto di vista socio-economico, sia culturale: le donne che saranno anziane domani non sono le stesse che sono anziane oggi, vivono in un contesto socio-economico più favorevole e sono meno vittime degli stereotipi, ma allo stesso tempo hanno maggiori ambizioni e desideri che in vecchiaia potrebbero essere disattesi. Questo cambiamento sembra sia già percepibile dai risultati contrastanti di alcuni studi, non sappiamo però in quale direzione andrà il cambiamento.

Convergenza o divergenza a parte, indubbiamente la terza età è caratterizzata da differenze tra uomo e donna, che sarebbe opportuno studiare più accuratamente per far sì che la società possa rispondere al meglio alle esigenze della popolazione anziana. È proprio questa la direzione che stanno prendendo la medicina di genere ma anche la psicologia di genere: partire dalle differenze per dare a ciascuno la risposta più appropriata in un’ottica di maggiore inclusione e personalizzazione.

 

Bibliografia

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