Un villaggio fuori dal tempo

In prossimità del fiume Adda, proprio nel punto in cui si congiunge con il Brembo, in provincia di Bergamo, sorge un villaggio fuori dal tempo che merita una gita fuori porta. Si tratta del villaggio industriale di Crespi d’Adda, molto più di un illustre esempio di storia architettonica, oggi patrimonio dell’Unesco. Rappresenta infatti il risultato della visione utopica di un ricco e autoritario imprenditore di fine Ottocento, Cristoforo Benigno Crespi, secondo cui le cose utili potevano e dovevano essere anche belle e la produttività industriale, per essere raggiunta, doveva passare anche attraverso il benessere dei lavoratori. Nasce così un microcosmo accuratamente progettato per creare una fusione completa tra ambiente lavorativo e vita familiare e sociale, diventati un tutt’uno attraverso la costruzione di abitazioni identiche in serie, scuola per i figli, spazi per il ritrovo dopo il lavoro, insomma un paese dove l’operaio aveva a disposizione tutto ciò di cui aveva bisogno pur restando all’interno del contesto lavorativo. 

Ambizione illuminata ed estremamente moderna per l’epoca o desiderio nascosto di controllare ogni aspetto della vita dei propri dipendenti? Certamente la distanza sociale tra operai e dirigenti viene sottolineata dalla diversità delle abitazioni destinate alle varie figure professionali e il pomposo mausoleo del proprietario nel cimitero del villaggio sembra imporre la sua autorità sulle anonime tombe dei dipendenti anche dopo la morte, ma non bisogna giudicare troppo duramente questo imprenditore un po’ fuori dal comune, che forse aveva già capito quanto il benessere nel luogo di lavoro rappresentasse un grande vantaggio per la produttività dell’intera impresa. 

 

Salute a tutto tondo

Tra le risorse di un’azienda non ci sono solo i lavoratori, ma anche la loro salute. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito “sano” l’ambiente lavorativo in cui i datori di lavoro, i dipendenti e tutti gli altri soggetti coinvolti a vario titolo collaborano attivamente ad un processo di continuo miglioramento per tutelare e promuovere la salute, la sicurezza e il benessere di tutti i lavoratori. L’ultima parte della definizione sottolinea anche un altro aspetto: quello della sostenibilità dell’azienda. Il miglioramento della salute dei lavoratori, anche e soprattutto a lungo termine, è un vantaggio per l’azienda stessa, che può contare su una forza lavoro sana, duratura e, perché no, motivata a dare il meglio in un ambiente dove il benessere del lavoratore conta, viene promosso e tutelato. Ecco che allora anche il datore di lavoro ha tutto l’interesse a promuovere questo tipo di iniziative.

Lo spiega la definizione stessa di salute introdotta sempre dall’OMS nel 1948: “uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità”. Si è ormai ben lontani dal classico dualismo cartesiano, che proponeva una netta separazione tra mente e corpo, quest’ultimo paragonato a un vero e proprio sistema meccanico il cui malfunzionamento portava alla malattia. Ne deriva un concetto olistico di salute, che non può più prescindere da un benessere che è anche mentale e sociale.

È emblematica in questo senso l’immagine creata da Monica Eriksson e Bengt Lindström per spiegare la loro personale interpretazione del processo di creazione e mantenimento della salute, o, per usare un termine più accattivante, della “salutogenesi”. La vita è un fiume in piena che conduce a una pericolosa cascata. Quando si è in acque ancora tranquille, si può agire sulla promozione del benessere e sull’educazione alla salute. Con i piedi a mollo nell’acqua, come gli antichi cercatori d’oro, alcuni hanno il preciso compito di “setacciare” i fattori causali delle malattie per promuovere una maggiore consapevolezza dei potenziali rischi legati a stili di vita e comportamenti scorretti. Poi la corrente aumenta e occorre cambiare strategia, agendo sulla prevenzione di un rischio più probabile. Si raggiungono in seguito acque turbolente, quasi al limite della cascata, ed è quindi il momento di prevenire il pericolo imminente con maglie di protezione. Qualcuno però scivola e sta per essere trascinato verso il basso, verso la malattia o, peggio, la morte. Non c’è più tempo per prendersela comoda e pianificare con calma, il danno è già iniziato e adesso serve una cura prima che diventi irreparabile.

Fonte: Eriksson, M., and Lindström, B. (2008). A salutogenic interpretation of the Ottawa Charter. Health Promotion International 23 (2): 190–199. doi:10.1093/HEAPRO/DAN014.

E se le immagini a volte spiegano più delle parole, eccone un’altra, quella del modello arcobaleno di Dahlgren e Whitehead per illustrare i principali determinanti della salute intesa nella sua accezione più ampia. Il cuore della salute è rappresentato dai fattori non modificabili (età, sesso, fattori genetici), mentre i numerosi strati più esterni si riferiscono a tutti quegli aspetti che influiscono sul nostro senso di benessere fisico e psicosociale (ambiente lavorativo, alloggio, assistenza sanitaria, alimentazione, stile di vita, reddito, reti sociali) e che possono essere plasmati nel tempo in base alle diverse esigenze.

Fonte: Dahlgren, G., & Whitehead, M. (1991). Policies and strategies to promote social equity in health. Institute for Future Studies, Stockholm.

 

Le parole chiave della salutogenesi

Equità

Alla base degli interventi volti a promuovere il benessere nell’ambiente lavorativo c’è l’obiettivo di creare un piano sociale che sia il più equo possibile. L’equità indica la possibilità di raggiungere un livello di salute adeguato in base alle proprie personali necessità. Non è un sinonimo di uguaglianza, cioè opportunità identiche per tutti, a causa delle inevitabili disparità tra i diversi soggetti, ma implica un continuo adattamento degli interventi proporzionato alle esigenze personali. 

Empowerment e consapevolezza

Con il termine un po’ altisonante di empowerment, che letteralmente significa “conferimento di potere”, ci si riferisce al coinvolgimento diretto di tutti i destinatari delle politiche di promozione della salute all’interno del processo stesso. Così facendo, il lavoratore può vedere da subito la relazione tra gli sforzi compiuti e i risultati e in questo senso si sente “padrone” dei propri successi, quindi “empowered”, cioè dotato di potere sui risultati ottenuti e di un ruolo attivo nei processi attuati per raggiungerli.

Alla base di questo coinvolgimento ci deve essere però un’attenta educazione per promuovere la consapevolezza dei singoli e della comunità, motivare e fornire competenze. Purtroppo l’Italia non eccelle in quanto a livello di “alfabetizzazione alla salute” (health literacy), presentando un tasso tra i più alti d’Europa di “analfabetismo funzionale”, cioè l’incapacità di usare in modo proficuo le proprie abilità di base per prendere decisioni consapevoli nel campo della salute.

Intersettorialità

Il processo di promozione del benessere nei luoghi di lavoro deve essere sin da subito trasversale a più ambiti della società. Si deve agire a livello di contesto, creando un’alleanza intersettoriale che coinvolga tutti i co-protagonisti di un’azienda, i “portatori di interessi” (stakeholders), quali i fornitori, i clienti, i collaboratori ma anche le comunità, le associazioni e istituzioni locali come l’INAIL e le organizzazioni sindacali, per valorizzare la responsabilità sociale dell’impresa

Efficacia, trasferibilità e scambio di conoscenza

L’efficacia rappresenta l’esito positivo di un processo. Prendendo in prestito due termini dal mondo anglosassone, non si tratta solo di avere la prova che l’intervento ha portato a buoni esiti in un ipotetico gruppo di soggetti (efficacia teorica, o efficacy), ma occorre dimostrare l’effectiveness, che ci riporta nel mondo reale riferendosi alla concreta applicabilità, o trasferibilità, dell’intervento nel contesto in cui dovrebbe essere introdotto. Per usare un gioco di parole, si passa dalla pratica basata sull’evidenza teorica all’evidenza di efficacia basata su una pratica già sperimentata. Non esiste un modello valido per tutti, ma ogni contesto lavorativo deve stendere un programma a misura dei propri lavoratori. 

Qualche esempio pratico

Per tornare con i piedi per terra dopo queste definizioni, ecco alcune applicazioni pratiche dei processi di promozione del benessere nei luoghi di lavoro, sostenuti da solide basi scientifiche. Si stima infatti che circa il 60% delle morti nel mondo sia da attribuire alle malattie non trasmissibili, prime fra tutte le patologie cardiovascolari, seguite da tumori, malattie respiratorie croniche e diabete, anche in conseguenza dell’estensione dell’aspettativa di vita. La bella notizia è che una buona parte di esse (quasi l’80% nel caso delle malattie cardiache) si può prevenire intervenendo precocemente sui fattori di rischio. Allora perché non iniziare proprio dagli ambienti di lavoro, tanto più che circa il 65% della popolazione con più di 15 anni fa parte della forza lavoro e dedica la maggior parte della giornata alla propria occupazione? Questi interventi risultano ancora più necessari se si pensa che l’età del pensionamento è aumentata notevolmente negli ultimi decenni (tra i 65 e i 67 anni nella maggior parte dei paesi europei) e che quindi una larga fetta della forza lavoro è rappresentata da soggetti alle soglie della terza età, quando iniziano a manifestarsi le conseguenze di stili di vita scorretti e quando è statisticamente più probabile sviluppare patologie croniche, tra cui i tumori. Prevenzione primaria (intervenendo sullo stile di vita) e secondaria (per esempio attraverso screening oncologici) rappresentano perciò delle valide alleate nella gestione di un’azienda. Vediamo come.

Un’istantanea che la dice lunga

Prima di tutto, occorre scattare una fotografia del proprio contesto, analizzando costantemente i bisogni e le criticità dell’ambiente lavorativo. Sono molti gli indicatori di salute a disposizione, molto spesso misurabili oggettivamente: livello di stress sul lavoro, numero di assenze per malattia, richieste di aspettativa, tassi di infortuni, ricambio del personale, produttività, costi dell’assistenza sanitaria.

A titolo di esempio si potrebbe citare la Scheda del Profilo di salute introdotta dal gruppo lombardo del progetto WHP (Work Health Promotion, Promozione della Salute negli ambienti di lavoro) del Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie, una sorta di questionario facilmente compilabile dove si valutano non solo le caratteristiche “demografiche” di un’azienda (numero e tipologia di lavoratori, profili professionali, tipologie di contratto), ma anche il contesto organizzativo relativo agli stili di vita e al rapporto vita-lavoro. Si parla per esempio di pasti salutari nella mensa aziendale, della disponibilità di spazi per lo svolgimento di attività fisica, di iniziative per il contrasto al fumo di tabacco o a comportamenti additivi e per la prevenzione (screening oncologico, campagne vaccinali) e così via. Tra le numerose proposte compare addirittura un gruppo di cammino aziendale e, in campo culinario, l’accoglimento di richieste legate a dettami religiosi o ideologici, segno che la salute fisica non è l’unico obiettivo alla base del processo, che invece mira a offrire un ambiente lavorativo in cui ci si possa sentire a proprio agio in tutti i sensi.

Un ufficio ad hoc

La rivoluzione industriale ha cambiato radicalmente il mondo del lavoro che, a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, inizia ad assumere un’organizzazione che potremmo definire “scientifica”, usando il titolo del saggio di Frederick W. Taylor, pioniere della rivoluzione della logistica nel contesto lavorativo di un’industria, anche a partire dall’organizzazione degli spazi. Secondo Taylor, la produttività può essere aumentata eliminando tutto ciò che non è assolutamente necessario a svolgere un compito specifico. Questo modello potrebbe essere l’antenato dei moderni uffici open space, ambienti asettici con postazioni identiche, adatte sia a far fronte rapidamente a cambiamenti nel personale sia ad esercitare un controllo da parte dei supervisori, che hanno tutti gli impiegati a portata di sguardo. Non a caso, è proprio la torre di controllo centrale di un carcere americano, dove pochi guardiani potevano sorvegliare tutti i detenuti, che ha ispirato il modello open space di un ufficio!

Ma qual è il modello migliore per sentirsi bene nel proprio ambiente lavorativo? In un esperimento ideato da alcuni ricercatori inglesi, ai partecipanti veniva chiesto di svolgere un’ora di tipico lavoro d’ufficio in un ambiente che poteva essere di quattro tipi diversi:

  • ufficio “snello”, molto minimalista, “alla Taylor”,
  • ufficio “arricchito”, abbellito da piante e stampe artistiche posizionate dai ricercatori,
  • ufficio “autogestito”, dove le stesse piante e rappresentazioni potevano essere disposte dal lavoratore a proprio piacimento,
  • ufficio “autoritario”, in cui la disposizione iniziale degli oggetti scelta dal lavoratore veniva modificata dai responsabili dell’esperimento.

La produttività cresceva del 15% nel caso dell’ufficio “arricchito”, ma raggiungeva il 30% quando l’ambiente poteva essere personalizzato, mentre le prestazioni e il benessere risultavano compromessi soprattutto nell’ufficio “autoritario”, segno che la possibilità di personalizzare il proprio ambiente è ancora più importante di un luogo di lavoro confortevole ma imposto dall’alto. 

In effetti, il grado di autonomia dei dipendenti può avere delle implicazioni anche a livello della salute fisica, portando alla cosiddetta “sindrome dell’ufficio malato”, una vera e propria patologia caratterizzata da stanchezza, mal di testa, nausea e irritazione delle mucose e della pelle. Ancora una volta il legame tra aspetti psico-sociali e salute fisica risulta imprescindibile.

La buona salute è un ottimo affare

Una valida base scientifica a sostegno dell’utilità di iniziative che promuovono il benessere dei lavoratori è fornita da un’ampia analisi dei dati del 2012, che ha valutato ben 62 studi, per un totale di più di 500.000 soggetti reclutati, considerando i risultati in termini di benessere in senso ampio dei dipendenti ma anche in termini economici, tentando di quantificare il risparmio sui costi legati alla salute dei lavoratori e all’assenteismo. Nonostante l’eterogeneità degli studi, la maggior parte è stata concorde nel dimostrare una riduzione media di circa il 25% dei costi legati all’assenteismo, alle spese sanitarie e agli indennizzi in seguito ad interventi di promozione della “salutogenesi” nei lavoratori. Un caso esemplare è quello dell’azienda Johnson&Johnson, una delle prime a introdurre un programma di promozione della salute dei dipendenti già nel 1979. Nel periodo 2002-2008 l’azienda è riuscita a ridurre in modo significativo la prevalenza di obesità, ipertensione, alti livelli di colesterolo, abitudine al fumo, scarsa attività fisica e alimentazione scorretta nei lavoratori e a risparmiare quasi 4 dollari per ogni dollaro investito nel progetto, senza dubbio un ottimo affare.

Il lavoro “intelligente”

L’attenzione alla salute dei lavoratori ha radici molto antiche, ha preso forma concretamente con la rivoluzione industriale, che ha comportato la gestione di un numero molto più ampio di dipendenti, e si è consolidata negli ultimi decenni. La produttività di un’azienda dipende anche da una forza lavoro in salute e da fattori psicologici, tanto che nel nuovo millennio è apparsa in alcuni contesti una nuova figura professionale, oggi appositamente certificata, quella del Chief Happiness Officer, che si occupa del monitoraggio del livello di soddisfazione dei lavoratori, individua delle politiche per migliorarlo e crea delle condizioni ambientali ottimali. 

O forse no? Secondo alcuni l’inserimento di questa innovativa figura non è altro che una strategia usata dai vertici per far meglio accettare lo stress a cui sono sottoposti i lavoratori, indorando la pillola con un “professionista della felicità” pronto a stare al loro fianco. Torna alla mente l’antica idea utopica dell’imprenditore Crespi, che forse con il suo villaggio appositamente studiato per soddisfare tutte le necessità degli operai mirava a “tenerseli stretti” nonostante i ritmi di lavoro serrati. Paternalismo o no, è dimostrato che soddisfazione e produttività vanno di pari passo. Certamente alla base della promozione del benessere nell’ambiente lavorativo ci sono anche interessi economici, ma d’altra parte la “salutogenesi” contribuisce a far sentire ciascun dipendente parte di qualcosa di più grande in cui è stimolato a mettersi in gioco e a dare il meglio.

La recente pandemia da COVID-19 ha evidenziato ancora di più la necessità di prendersi cura del benessere di chi lavora. Lo smart working, il “lavoro agile” o “intelligente”, non è solo il lavoro da casa davanti a un PC, ma implica lo sviluppo di una nuova cultura del lavoro che mira a creare un’organizzazione empatica, che si prende letteralmente cura dei propri lavoratori in una prospettiva orientata alla felicità e al benessere in tutti i sensi.

 

Fonti:

Bianchi, A. (2021). Il nodo pensioni – In Europa siamo quelli che vanno in pensione più tardi (e l’UE vuole che ci andiamo anche dopo). EuropaToday. 

Chapman, L. S., Larry Chapman, E. S., Publisher Michael O, M. P., and Managing Editor Danielle Price, M. J. (2012). Meta-Evaluation of Worksite Health Promotion Economic Return Studies: 2012 Update Setting the Stage Editorial Team. Am. J. Heal. Promot. 26, TAHP1–TAHP12. doi:10.4278/ajhp.26.4.tahp.

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Haslam, S. A., and Knight, C. (2010). Scrivania, scrivania, per piccina che tu sia… Mente e Cervello 72, 90–95.

Henke, R. M., Goetzel, R. Z., McHugh, J., and Isaac, F. (2011). Recent Experience In Health Promotion At Johnson & Johnson: Lower Health Spending, Strong Return On Investment. Health Aff. 30, 490–499. doi:10.1377/HLTHAFF.2010.0806.

Pennacchio, M. (2020). Chief Happiness Officer: la figura aziendale del futuro. Marketing Espresso. 

Proper, K. I., and Van Oostrom, S. H. (2019). The effectiveness of workplace health promotion interventions on physical and mental health outcomes – a systematic review of reviews. Scand. J. Work. Environ. Health 45, 546–559. doi:10.5271/sjweh.3833. 

Programma WHP (2021). Manuale per l’implementazione del programma “Luoghi di lavoro che promuovono salute – rete WHP” 

Stringa, P. (2020). Cari dipendenti, il nostro fine è la vostra felicità. Il Sole 24 Ore

VILLAGGIO CRESPI D’ADDA – Unesco (2022)

World Health Organization (2008). Preventing Noncommunicable Diseases in the Workplace through Diet and Physical Activity WHO/World Economic Forum Report of a Joint Event

 

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