Un volto spento, lo sguardo fisso, assente, l’anziano corpo abbandonato su una sedia a rotelle. Poi un paio di cuffie alle orecchie e una musica in sottofondo. Questa melodia l’ha già sentita, ma quando? All’improvviso, le potenti note che fanno da sfondo alla morte del cigno nel balletto Il lago dei cigni di Čajkovskij le riportano alla mente quello che è stata per tutta la vita, una ballerina. L’anziana signora comincia a muovere le braccia, come se si fosse improvvisamente risvegliata dalla sua apatia, per provare a danzare come un tempo, pur con i limiti che l’età avanzata e la demenza le impongono. Questo video, diventato virale su YouTube, riassume in pochi toccanti minuti la condizione di molti anziani affetti da una demenza nelle sue diverse forme e mostra una delle strategie che possono essere utilizzate per migliorare il loro rapporto con il mondo esterno e con se stessi.

 

Un centralino che funziona male. La demenza spiegata dalla scienza

La demenza è un processo degenerativo dei neuroni che comporta un progressivo deterioramento delle funzioni cognitive, cioè della capacità di sviluppare il pensiero, in tutte le sue declinazioni. Sottili differenze nei processi patologici e/o nelle aree del cervello da cui essi hanno origine determinano un’ampia variabilità dei sintomi, che vanno dall’alterazione della memoria alla difficoltà di linguaggio fino alla perdita della parola (afasia), dalla difficoltà a mantenere la concentrazione e l’attenzione a sintomi comportamentali e addirittura a un vero e proprio cambiamento della personalità.

Anche quando la memoria è la principale funzione coinvolta, come nell’Alzheimer, la forma più frequente di demenza, i problemi possono andare ben oltre l’amnesia, coinvolgendo per esempio anche la capacità di fare associazioni e ragionamenti, o di immaginare e pianificare il futuro. La causa va ricercata in un’area del cervello che comprende una struttura a forma di “Y” chiamata ippocampo e parte del lobo temporale, le aree nervose con un ruolo chiave nella formazione dei ricordi. L’ippocampo, in particolare, può essere considerato un centralino di collegamento tra varie regioni della corteccia cerebrale anche distanti e apparentemente sconnesse, come quelle del linguaggio o della vista, permettendo di creare ponti capaci di evocare ricordi, associare pensieri e generare fantasie.

Si capisce quindi come non si tratta solo di essere “smemorati”: i sintomi della demenza si estendono più in là dell’incapacità di rievocare esperienze e finiscono per coinvolgere l’intera sfera del quotidiano, tanto che la persona può avere la percezione di vivere in una realtà frammentata, estraniandosi dalla quotidianità che ha vissuto fino a quel momento. Sembra difficile da immaginare, ma si pensi a quante associazioni, anche le più banali, la nostra mente riesce a creare nel corso di una giornata. Il campanello del forno ci permette di non bruciare la cena, un profumo già percepito in passato evoca un ricordo più o meno piacevole, il livello dell’acqua che si alza nella vasca da bagno ci impone di chiudere il rubinetto per non allagare la stanza. Tutto questo può essere perso in un anziano con demenza e molte di queste difficoltà si possono ricondurre all’alterazione di un altro aspetto fondamentale nella vita di tutti i giorni: il tempo.

 

Una nuova dimensione

“Che giorno è oggi? “Dove ci troviamo?” Queste sono le tipiche domande iniziali dei test neurologici per pazienti con sospetta demenza, volti a valutare le principali funzioni cognitive, tra cui l’orientamento spazio-temporale. Una delle tante manifestazioni della demenza è infatti l’alterazione del senso del tempo e dello spazio.

Emblematica è la scena del film Still Alice (2014), dove la protagonista, colpita da una forma precoce e familiare di Alzheimer,  ripone nel congelatore il proprio cellulare, di cui ormai non può fare a meno, e quando lo ritrova dopo un mese è convinta di averlo perso solo la sera precedente. La demenza fa entrare in una nuova dimensione temporale, o in alcuni casi a-temporale, dove il tempo viene compresso o dilatato fino all’inverosimile.

Le moderne teorie della neurobiologia tendono a definire il tempo come un evento della coscienza creato dal nostro cervello a priori rispetto alla percezione del mondo esterno. In base a questa definizione, il tempo verrebbe sentito internamente, non percepito dall’esterno. Questo spiegherebbe perché ci è possibile viaggiare con la mente nel passato (ricordi) o nel futuro (previsioni, fantasie) senza fare effettivamente esperienza del momento che si sta rivivendo o immaginando.

La distorsione del tempo, riferita da molti pazienti con demenza, si manifesta in diverse forme: dalla difficoltà a stimare la durata di un evento a una “rigidità” temporale (per esempio la tendenza a  consumare i pasti rigorosamente alla stessa ora), all’abitudine quasi ossessiva di guardare con ansia l’orologio (nota anche come sindrome di Godot, dal famoso dramma di Samuel Beckett costruito intorno all’assurda condizione dell’attesa fine a se stessa). La biologia e la medicina hanno tentato di formulare ipotesi sulla causa di queste manifestazioni. La difficoltà a mettere in ordine gli eventi o a stimarne la durata potrebbe essere dovuta a una compromissione dell’attenzione, che normalmente contribuisce a filtrare gli eventi vissuti, fissando nella mente solo quelli che sono stati in grado di raggiungere una determinata soglia attentiva, mentre le alterazioni della memoria avrebbero conseguenze non solo sul ricordo di eventi passati (amnesia retrograda) ma anche sulla capacità di immagazzinare nuove informazioni o di proiettarsi nel futuro (amnesia anterograda), facendo sentire il malato come “imprigionato nel presente” e riducendo notevolmente la propria sicurezza nel pianificare e nel prendere decisioni, e, di conseguenza, la propria autonomia.

Sempre nel film sopracitato, Alice si accorge delle prime avvisaglie della malattia quando, facendo jogging, si ritrova completamente disorientata per alcuni minuti,, pur trovandosi di fronte all’edificio dell’università dove insegna da anni. Questo disorientamento nello spazio, definito anche “wandering” (letteralmente: “vagabondaggio”), riferendosi al girovagare apparentemente senza meta tipico dei malati di demenza, spesso si accompagna alla perdita del senso del tempo e ha anch’esso una causa nella compromissione dell’ippocampo, che, ormai lo si è capito, è una sorta di direttore d’orchestra che dirige ed integra come un computer il viavai di informazioni provenienti dalle regioni più varie del cervello. La sua parte più laterale contiene infatti le “cellule del tempo” (time cells), che creano i circuiti del ricordo dell’evento, mentre la regione mediana contiene le cosiddette “cellule griglia” (grid cells), che codificano il ricordo dello spazio. Non c’è da stupirsi quindi se la degenerazione di queste delicate aree ha un impatto notevole sulla capacità del soggetto di elaborare il proprio spazio e il proprio tempo, con conseguenze spesso frustranti, almeno fino a quando la persona ne è consapevole.

La consapevolezza della propria condizione è un altro aspetto da non sottovalutare nei malati di demenza. È interessante vedere come il declino delle facoltà mentali sembra avere un impatto emotivamente negativo soprattutto nelle fasi iniziali della demenza e non quando la malattia è in stato avanzato. Una possibile spiegazione potrebbe essere una conseguenza stessa del deterioramento cognitivo nelle fasi più avanzate della malattia, una condizione nota come “anosognosia”, termine che descrive la perdita della consapevolezza della propria malattia, che rende insensibili alle alterazioni del proprio rapporto con il mondo esterno e paradossalmente aiuta a vivere meglio la propria condizione.

 

Demenze e qualità di vita

I ricercatori si sono spesso chiesti quali possano essere i principali fattori che influenzano la qualità di vita di una persona affetta da demenza, allo scopo di delineare le strategie più efficaci nella prevenzione e nel trattamento a lungo termine di una patologia cronica e progressiva.

Ma cosa significa qualità di vita? Certamente il “vivere bene” non è una definizione che si può risolvere riferendosi semplicemente al benessere fisico, che, pur nella sua importanza, rappresenta una minima parte di un concetto ben più complesso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto una soluzione multi-dimensionale definendo la qualità di vita come “l’insieme delle percezioni di un soggetto della propria posizione nel contesto culturale e nel sistema di valori in cui vive e in relazione ai propri obiettivi e alle proprie aspettative”. La salute fisica non viene neppure menzionata direttamente, ma rimane in sottofondo, dando invece risalto al concetto di sé, alle relazioni interpersonali, alle emozioni, il tutto ben posizionato nel proprio ambiente culturale. Certamente è una definizione che si addice molto meglio all’esperienza della demenza, una patologia che finisce per diventare pervasiva, invadendo diversi aspetti del quotidiano ben al di là del disturbo fisico e impedendo molte attività che prima erano date per scontate, come l’autonomia, il proprio funzionamento sociale o le attività di svago.

Purtroppo non c’è ancora una cura per le diverse forme di demenza e i farmaci attualmente disponibili sono in grado solamente di tenere a bada i sintomi e, nella migliore delle ipotesi, rallentare la progressione, che tuttavia è inevitabile. Se però la qualità di vita non si riferisce semplicemente alla salute in senso fisico, sono varie le possibilità di migliorare l’esperienza di malattia, rendendola più sopportabile e regalando momenti di benessere in senso lato.

Un esempio è il modello di cura GENTLECARE® ideato alla fine degli anni Novanta dalla terapista canadese Moyra Jones proprio a partire dall’esperienza personale con il padre affetto da Alzheimer. Questo approccio, dedicato in modo specifico all’anziano con demenza, ma estendibile anche agli anziani fragili e non autosufficienti, può essere definito “protesico” e “circolare”. Protesico poiché mira a costruire una protesi intorno al malato che gli permetta di mantenere l’autonomia il più a lungo possibile e a ridurre le situazioni di stress che potrebbero essere fonte di agitazione, ansia e aggressività. Circolare perché fondato sull’interdipendenza tra la persona con demenza e la sua famiglia e sull’alleanza terapeutica con i sistemi di assistenza sanitaria. Gli elementi principali di questa protesi astratta sono:

  • lo spazio protesico: la progettazione degli spazi, l’arredo, la luce e i colori;
  • la persona protesica: detta anche “agente terapeutico”, è colui che assiste la persona con demenza (familiari, caregiver professionali e volontari);
  • le attività protesiche: sono le attività progettate attorno all’anziano con demenza come ausili per il miglioramento della sua qualità di vita.

Si tratta di un progetto fortemente individualizzato, non programmabile a tavolino né generalizzabile a tutti i pazienti, in costante cambiamento ed evoluzione sulla base delle preferenze e delle risposte fornite di volta in volta dal malato, il protagonista dell’attività.

 

Una stanza tutta per sé

Le caratteristiche dell’ambiente in cui il malato vive sono emerse tra i parametri che incidono maggiormente sulla qualità di vita, sia che l’assistenza venga fornita nella propria abitazione, sia in caso di lungodegenze all’interno di case di cura. Avere a disposizione una stanza singola, con una finestra per guardare all’esterno, e soprattutto avere la possibilità di lasciare un proprio “segno”, nell’arredamento o nella disposizione degli oggetti, sono tutti accorgimenti che regalano conforto alla persona, permettendole di vivere in un ambiente familiare anche se lontano da casa. Nei nuclei Alzheimer di alcune case di cura, per esempio, si tenta di riprodurre fedelmente le caratteristiche della camera da letto che il paziente aveva nella propria abitazione, magari con un centrino ricamato dalla persona stessa, o appendendo alle pareti vecchie fotografie, del giorno delle nozze, dei figli, degli amici di infanzia. Lo scopo di queste strategie è anche terapeutico e mira a stimolare il paziente a ricordare, permettendogli di restare in contatto con quello che era una volta. Forse l’anziana signora del video iniziale avrebbe piacere nel vedere le sue scarpette a punta appese di fianco al proprio letto, per rievocare, almeno ogni tanto, ricordi lontani ma felici.

 

Una medicina chiamata svago

Stimolare è il verbo più appropriato anche nella pianificazione delle attività da proporre al malato con demenza. Diversi studi hanno infatti dimostrato una differenza significativa nella percezione della qualità di vita in relazione a fattori quali la possibilità di mantenere delle relazioni sociali, il sentirsi coinvolti in un’attività, la possibilità di prendere ancora decisioni per sé ed esprimere le proprie preferenze. Dopo una diagnosi di demenza è molto facile isolarsi dagli altri, ma è molto importante rimanere attivi, strutturare la propria giornata dandosi degli obiettivi e fissando impegni e soprattutto continuare a socializzare anche per condividere con gli altri le proprie difficoltà.

Sono molti i programmi proposti con un razionale scientifico nel trattamento a lungo termine della demenza, spesso coinvolgendo specialisti della terapia occupazionale, una disciplina riabilitativa volta a migliorare la capacità di un soggetto di essere autosufficiente e di gestire la propria quotidianità attraverso attività mirate con diversi gradi di difficoltà. Se, come anticipato all’inizio, nella demenza si verifica un’interruzione delle connessioni che normalmente permettono di fare associazioni mentali, la terapia occupazionale tenta di insegnare nuovamente a realizzarle, e anche se lo scopo non viene raggiunto del tutto, si è notato un netto beneficio almeno sulla sfera emotiva e affettiva, in altre parole un miglioramento dell’umore e del senso di benessere.

Tra le attività artistico-espressive che sembrano apportare un miglioramento della percezione della qualità di vita c’è sicuramente la musica. Un interessante studio cinese ha sperimentato la musicoterapia su un gruppo di anziani affetti da demenza, non solo valutando gli effetti della musica in sé ma anche della modalità in cui l’attività veniva svolta. I partecipanti sono stati assegnati casualmente a tre diversi gruppi e hanno preso parte a sessioni di attività musicale bisettimanali della durata di 40 minuti per quattro settimane consecutive. Un gruppo era guidato da una professionista di musicoterapia che proponeva di cantare canzoni scelte dai pazienti stessi (ecco di nuovo l’importanza dell’esprimere le proprie preferenze), nel secondo gruppo alcuni operatori sanitari addestrati facevano ascoltare lo stesso repertorio di canzoni da un lettore CD, mentre nel terzo gruppo i pazienti seguivano le puntate di una serie televisiva scelta dagli organizzatori. Un miglioramento del benessere percepito si è verificato in tutti e tre i gruppi, ma l’effetto maggiore si è visto solo nel gruppo di musicoterapia attiva, quello dove i partecipanti erano coinvolti in prima persona nel canto dei motivi preferiti. Al contrario, l’ascolto passivo e la visione di uno schermo, benché piacevoli attività di svago, non prevedevano interazioni tra i partecipanti, che risultavano quindi meno motivati a stabilire relazioni interpersonali.

I risultati non fanno altro che confermare quanto è stato detto precedentemente, e cioè che ciò che più conta per il malato è essere coinvolto direttamente, sentirsi ancora attivo. Proprio come l’anziana signora del video iniziale, che, grazie a pochi minuti di musica, ha potuto rivivere per un momento l’ebbrezza di danzare sul palco. Certamente ascoltare della buona musica non rallenterà il costante progredire della sua demenza, ma almeno sarà stata un’occasione per tornare ad essere se stessa.

 

Fonti

 

Film

  • Glatzer, R., and Westmoreland, W. (2014). Still Alice. Good Films (Stati Uniti).

 

Video

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